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18.03.14 Si è concluso il 24 febbraio 2014 il Congresso territoriale della Fillea Sassari. Di seguito la relazione del segretario uscente Salvatore Frulio, riconfermato alla guida della struttura dal nuovo direttivo eletto al termine del congresso.
Vorrei innanzi tutto rivolgere ai gentili ospiti, agli amici invitati, alle compagne e ai compagni delegati il fraterno saluto della Segreteria territoriale della FILLEA di Sassari. Il nostro Congresso, Quello che oggi ci accingiamo a celebrare, è per la nostra categoria, il secondo atto di un percorso congressuale impegnativo che si concluderà con il Congresso della CGIL Nazionale l’ 8 maggio a Rimini. Un congresso, che la CGIL ha impostato nel mezzo di tante preoccupazioni per le sorti del nostro paese e per il futuro del sindacato, andando ad un confronto fra due posizioni, che se pur non ha creato problemi alla categoria che si riconosce pienamente nel primo documento, qualche fastidio lo abbiamo riscontrato tra noi e i lavoratori, innanzi tutto gli iscritti, che in qualche caso ci hanno chiesto se non avevamo altro da fare che inventarci altre divisioni dentro un sindacato che sicuramente avrebbe molto più bisogno di unità che di divisioni, figurarsi poi dentro la CGIL! Non è stato facile rappresentare le differenze che sono apparse; spesso, più il prodotto di una logica autoreferenziale che reale espressione di politiche contrapposte; poiché le differenze non è vero che non esistono, è forse utile riflettere, per la prossima volta, se sia questo il modo più efficace di rappresentarle in un confronto congressuale, perché non c’è niente di costruttivo per la stessa dialettica democratica interna nel dare l’impressione che vivano due CGIL dentro un unico corpo. Cosi come quattro anni fa, la situazione del paese, della sua economia e quella del lavoro e dell’occupazione, presentano un quadro devastante. Oggi, dopo un ventennio di berlusconismo, con il degrado morale della politica a tutti i suoi livelli, la situazione si presenta, con il volto di una crisi profonda che stenta ad allontanarsi: dissesto produttivo ed industriale; recessione; carenza di infrastrutture materiali e immateriali; assenza di politiche e di strategie verso il mezzogiorno; arretramento nella qualità della scuola, della ricerca scientifica e dell’università; una politica sociale che, senza affrontare i problemi dell’efficienza e della qualità dell’offerta pubblica, attraverso una sistematica politica di riduzione delle risorse, ha teso a colpirne il carattere universalistico e ha finito per privilegiare un’offerta privata di bassa qualità e di alti costi, senza attenzione verso le crescenti aree della povertà, del disagio, dell’emarginazione. E’ aumentata la precarietà, le nuove forme di lavoro non offrono ai giovani nessuna garanzia per il loro futuro, né sui livelli retributivi né tantomeno sulla qualità dell’occupazione, e che successivamente, con la “riforma” Fornero, si è sferrato un ulteriore attacco ai diritti. Infatti, attraverso il termine “esodati”, si è creata una nuova categoria di lavoratori, costretti a stare nel limbo, in quanto troppo vecchi per lavorare e troppo giovani per andare in pensione. La crisi, iniziata nel 2007, ormai nel suo settimo anno, ha eroso le capacità di resistenza delle famiglie e delle imprese, generando condizioni di diffuso disagio sociale, una caduta profonda delle aspettative, un cambiamento radicale nelle abitudini dei consumatori. La contrazione del prodotto cumulata dall’avvio della crisi ha raggiunto l’8 per cento: una caduta di tale entità non poteva non lasciare tracce profonde nel tessuto produttivo e sulle opportunità occupazionali. Negli ultimi anni abbiamo perso nel nostro settore 750 mila posti di lavoro: una caduta che avrebbe potuto essere più profonda se la produttività del lavoro non fosse rallentata, se le ore lavorate per occupato non si fossero ridotte, se il ricorso alla CIG non fosse aumentato per tutelare i redditi dei lavoratori e le potenzialità di ripartenza delle imprese. In Italia, rispetto agli altri Paesi europei, la caduta del Pil è stata seconda solo alla Grecia mentre la riduzione dell’occupazione è stata relativamente contenuta. Se l’occupazione fosse diminuita quanto il Pil, le perdite sarebbero oggi pari a un milione 870mila occupati. Possiamo dire che la nostra occupazione tiene rispetto alla caduta del Pil, ma tiene a prezzo dell’impoverimento di molti lavoratori, dei sacrifici delle loro famiglie e della capacità di sopravvivenza delle imprese più tenaci. Questa recessione cambia la morfologia del mercato del lavoro: aumenta il peso dei giovani, dei lavoratori poveri, dei part-time involontari, dei disoccupati di lungo periodo. La situazione si presenta più grave al Sud la cui struttura produttiva, meno votata all’export e caratterizzata da una maggiore incidenza dell’edilizia, ha risentito in misura più intensa delle difficoltà della domanda interna. L’economia del Mezzogiorno ha registrato maggiori perdite di posti di lavoro, la maggiore caduta dei redditi, e una contrazione dei consumi più pronunciata. Questo quadro cupo, secondo il rapporto del CNEL, è rischiarato da nuovi dati che dicono che il punto di minimo della recessione sembra essere stato toccato. Possiamo dare credito ai primi segnali di inversione? Quale potrà essere l’intensità della ripresa? Sarà una risposta sufficiente alla gravità della situazione del mercato del lavoro? Queste non sono domande retoriche: la situazione è così fragile che non si può sprecare nessuna risorsa, né fare mosse sbagliate. Occupazione, disoccupazione, salari non dipendono solo dagli irrisolti problemi del nostro mercato del lavoro, ma subiscono le conseguenze di una crisi profonda, e difficilmente potranno risollevarsi se non ripartirà l’economia. Una ripresa solida e duratura non potrà che essere trainata da una inversione di tendenza nell’andamento della produttività. In altre economie europee pesantemente colpite dagli effetti della crisi – Spagna, Irlanda, Portogallo – la risposta delle imprese ha puntato al recupero di efficienza. In Italia la produttività ha invece continuato a ristagnare. Questo nel breve periodo attenua le conseguenze della recessione sulla domanda di lavoro, ma nel medio termine aggrava la crisi, e peggiora ulteriormente le condizioni del mercato del lavoro. Una politica per il lavoro non può che essere una politica attiva per la crescita. Sempre nel Rapporto CNEL, si stima che per riportare il tasso di disoccupazione all’8 per cento entro il 2020, il tasso di crescita del Pil dovrà superare il 2 per cento all’anno negli anni a venire. Un target non eccezionale, ma oggi forse non alla portata del nostro sistema. Per far ripartire la crescita è necessario attivare nuova occupazione con il reimpiego di quanti sono rimasti esclusi dal mercato negli ultimi anni: il sottoutilizzo della nostra forza lavoro è aggravato dal deterioramento del capitale umano di chi resta fuori dal mercato. Il danno individuale è una perdita sociale, sia per le minori potenzialità di crescita che derivano dalla riduzione del capitale umano, che per le esternalità negative nei rapporti sociali e la mancata produzione di capitale umano futuro che consegue dalla povertà di risorse per l’istruzione. Oltre alla caduta dei fabbisogni occupazionali delle imprese, i giovani risentono della minore domanda di sostituzione dei lavoratori anziani in uscita dal circuito produttivo in seguito ai provvedimenti di riforma delle pensioni, che fanno aumentare i tassi di attività dei più anziani. A rendere più complessa la sfida sono i vincoli della finanza pubblica, che limitano le risorse per le politiche del lavoro: l’Italia è fra i Paesi che meno spendono per le politiche attive. Le politiche del lavoro non potranno che utilizzare strumenti a costo ridotto e puntare sulle immense economie della messa in valore della collaborazione come vantaggio competitivo, attraverso il miglioramento dei prodotti e dei processi. L’ottimizzazione dell’organizzazione del lavoro in funzione sia delle esigenze del mercato che di quelle dei lavoratori, l’investimento in formazione e addestramento, il potenziamento della gestione delle risorse attraverso la partecipazione. A questo compito è chiamata non solo la politica economica, ma anche l’azione delle parti sociali, in primis il Sindacato. Ecco perché incoraggiamo la recente formulazione di una proposta congiunta da parte delle organizzazioni sindacali e di quelle datoriali per una politica economica che fronteggi finalmente l’eccessivo carico fiscale che grava sul lavoro e sull’impresa. La crisi economica rende urgente l’attivazione di interventi in grado di fare della formazione un elemento strutturale di politica economica, per diffondere conoscenze e competenze professionali collegate al sistema produttivo, alle sue dinamiche innovative, allo sviluppo compatibile, e per favorire nel contempo l’acquisizione di competenze di base capaci di facilitare processi di apprendimento lungo tutto il corso della vita. Gli effetti della crisi economica sul mercato del lavoro non si riflettono solamente sul numero degli occupati, ma anche e più in generale sull’intensità di lavoro. Gli ultimi dati sull’orario di lavoro in Italia mostrano una contrazione dell’orario medio ancora più marcato rispetto al resto d’Europa, che vede tedeschi e francesi, viaggiare a ritmi ben più consistenti, rispetto all’uscita dalla crisi. Venendo alle risposte di contrasto, poiché i primi effetti si sono manifestati per il tramite della stretta creditizia, nella fase iniziale in Europa, cosi come nel resto delle economie mondiali ci si è adoperati per garantire la tenuta dei sistemi del credito e della finanza. A fronte della flessione più grave dell’occupazione (prevista nel corso degli anni appena trascorsi, almeno per quanto ci auguriamo), l’Unione Europea, cosi come già detto, ha prodotto una serie di iniziative rivolte a tamponare gli impatti sul mondo del lavoro, stanziando risorse finanziarie, che avrebbero dovuto avere una attenzione particolare al rafforzamento del capitale umano, ma che invece, almeno per quanto riguarda il nostro Paese, ha solamente agevolato le stesse Banche. Banche che dovrebbero agire a supporto dell’economia reale, tornando ad erogare credito ad imprese e famiglie con tassi in linea con i principali paesi europei, contrastando così la finanza fine a se stessa in favore della finanza funzionale alla crescita economica stabile e sostenibile. L’Italia oggi, anche per effetto di questa crisi, è un paese più disgregato, più diviso, più insicuro dal punto di vista economico, dal punto di vista sociale, sotto il profilo della qualità della vita democratica e dell’etica pubblica. Un paese dove sono aumentate le disuguaglianze e l’impoverimento di ampi strati sociali fra cui i giovani, le donne e gli anziani. Un paese dove la criminalità organizzata ha rialzato la testa e le illegalità crescono. E’ evidente che l’Italia è attraversata da una crisi profonda, e che oggi a stento si sta tentando di uscire dalla stessa. Gli ultimi governi, hanno fin qui attuato politiche fallimentari, limitandosi, anche quest’ultimo, a una rimodulazione della spesa. Contrariamente a quanto da noi richiesto, la stessa Legge di stabilità non garantisce maggiore equità. La crisi del sistema produttivo italiano è di eccezionale gravità, vi è stato infatti un vero e proprio processo di deindustrializzazione. Invertire questa tendenza diventa la priorità per il Paese, che per competere col resto del mondo deve rilanciare e salvaguardare l’occupazione. Questo secondo noi è l’intervento, che bisogna sostenere, indicandolo come valore di riferimento per l’intera organizzazione sociale, intendendo il lavoro in tutte le sue forme, in alternativa alla centralità del mercato, ridando forza in questo modo al concetto di “Repubblica fondata sul lavoro”, perché a nostro avviso il lavoro e la conoscenza, devono diventare il bene comune di una nuova e diversa fase di sviluppo economico e produttivo. La fotografia impietosa dell’impatto della crisi sulle economie fragili come quelle della nostra regione, che soffrono di un deficit produttivo, infrastrutturale e sociale, che vedono ancora dilagante il ricorso al lavoro nero, dove è sistematica la violazione dei diritti contrattuali e previdenziali, in un contesto di crisi come quello attuale rischiano di vedersi negata qualsiasi speranza di sviluppo futuro. Soprattutto perché le scelte del governo nazionale, non sono sin qui, andate certo nella direzione del sostegno alle aree svantaggiate, anzi. Sino ad oggi le azioni poste in campo dai Governi, si sono dimostrate sbagliate e inefficaci, in quanto scaricano i costi sul mondo del lavoro, avendo come unico record quello di aver perso 54 mila posti di lavoro certificati, solo nella nostra regione, e che in Italia i disoccupati hanno superato quota 3 milioni. E’ anni che come CGIL andiamo ripetendo che è indispensabile al fine di rilanciare l’economia del paese, alleggerire il carico fiscale ai lavoratori dipendenti e ai pensionati. E’ necessario intervenire subito perché se non si cambia rotta, per effetto del drenaggio fiscale il lavoro dipendente, registrerà un ulteriore aumento di diversi punti del prelievo. Non si tratta solo di tagliare le tasse in sé, ma riequilibrare in modo più equo la distribuzione, soprattutto in una fase come questa di grande difficoltà economica, perché da più di trent’anni a questa parte è in atto un processo che sposta il peso del prelievo dalla rendita ai redditi da lavoro, cosi come è oramai da tempo che chiediamo venga fatta una Legge che introduca un DURC per congruità. Tutti i dati ci consegnano una Regione Sardegna e il Territorio di Sassari ancora in sofferenza, con il tasso di occupazione che passa dal 52,6% del 2012 al 48,3% del 2013, mentre il tasso di disoccupazione cresce di 3,6 punti percentuali, arrivando al 18,6% (era al 15% a giugno di un anno fa). Un valore lontano dal 12% dell’Italia, anche se inferiore a quello del Mezzogiorno che sfiora il 20%. In Sardegna, i risultati dell’indagine Istat sulle forze di lavoro relative al secondo trimestre 2013 mettono in luce un calo dell’occupazione, come già detto, pari a 54 mila unità (ulteriormente cresciuto a settembre) e un contestuale aumento delle persone in cerca di lavoro di 20 mila unità, rispetto allo stesso trimestre del 2012. Per questo, avevamo riposto sui lavori, della strada di collegamento a quattro corsie che collega Sassari a Olbia, grandi aspettative, già prima del congresso precedente. Strada, che per quanto ci riguarda serve al territorio, ma più in generale a tutto il nord Sardegna, non solo per dare una risposta occupazionale, ma per le infrastrutture appunto che sono indispensabili per l’alta movimentazione di persone e merci che dal continente attraversano il tirreno passando per lo scalo di Olbia. Finalmente dopo un lungo travaglio abbiamo visto affidati tutti e 10 i lotti, ma che ancora oggi stentano a sviluppare lavoro ed occupazione. Infatti sono solo circa la metà quelli accantierati, e solo due quelli ad oggi operativi. Confrontarci con Filca e Feneal, ha portato nella nostra discussione, pur con le differenze che pure ci sono, per riflettere sulle nostre certezze, senza rinunciare a metterle in discussione e, comunque, raccogliendo i necessari stimoli per favorire un evoluzione del nostro pensiero e della nostra elaborazione. Ribadire le cose che ci uniscono serve a noi per rafforzare la convinzione che esiste un importante corpo dentro il quale le nostre diverse sensibilità e i diversi modelli teorici e pratici possono metabolizzarsi nella ricerca costante di una sintesi comune, che oggi può essere solo un percorso, ma che può diventare domani un progetto. A dire il vero un progetto in questi ultimi quattro anni, lo abbiamo sperimentato, anche sulla scorta di quanto fatto a livello nazionale, cercando di fare fronte comune con le organizzazioni datoriali (Stati Generali delle Costruzioni) nel giugno del 2011. In quel periodo abbiamo costituito la Consulta degli stati generali, con la quale si decise di manifestare assieme a quelli che in tempi non tanto lontani, avremmo definito padroni. (Nonostante fossimo in piena stagione contrattuale, si era aperta a Ottobre dell’anno precedente, la fase relativa al 2° livello con ANCE). Esperienza che in una prima fase poteva definirsi progressista, non solo per i soggetti che la componevano, ma per l’intenso scambio di dati che tutti mettevano a disposizione di un settore la cui crisi obbligava a stare insieme, al fine di rivendicare con più forza la centralità, che da sempre il settore ha svolto in periodi di crisi, assolvendo ad un azione anticiclica, pensando che attraverso questa nuova compagine si potesse se non governare il settore, dare indirizzi alla politica per poterlo rilanciare . Pensavamo che l’emergenza economica e sociale ci imponesse di sfruttare anche questa occasione. Per quanto mi riguarda, definire questa esperienza fallimentare, vorrebbe dire non rendere appieno quanto la stessa ha prodotto. Sarebbe addirittura troppo facile affondare il colpo su un entità, che a parte mettere insieme soggetti che hanno sviluppato dati, che illustravano il grido di dolore del settore, che veniva rappresentato, soprattutto sulla stampa locale, per lo più dal presidente dell’ANCE, il quale, utilizzava le sigle più per rendersi visibile agli occhi delle istituzioni che di volta in volta incontravano la “Consulta”, che non trovare e/o proporre soluzioni per risolvere i problemi dell’edilizia. Nello stesso periodo avendo già avviato le procedure per il rinnovo del contratto di secondo livello per gli edili, e avendone più volte sollecitato un incontro, solo a febbraio del 2011 l’ANCE rispondeva che si “ riservava di proporci una data “. Data che non abbiamo mai ricevuto, nonostante il sollecito fatto per l’apertura del tavolo negoziale formalmente inviato anche a settembre del ’12 a firma unitaria. Nel frattempo come si sa, sono stati rinnovati tutti i contratti del nostro settore tranne quello edile. Dopo un anno di trattative e 17 incontri con le controparti il 05 febbraio, sono riprese le trattative tra Ance i sindacati di categoria, per il rinnovo del contratto edilizia industria che interessa circa 800mila addetti, trattative che lo scorso novembre furono bruscamente interrotte a causa dell’atteggiamento provocatorio dell’Ance, cui seguì lo sciopero nazionale del 13 dicembre. Ancora una volta L’incontro non ha prodotto risultati sui tre fronti ancora aperti (Premio anzianità Ape, salario e riorganizzazione degli Enti bilaterali) ma le parti hanno fissato tre nuovi incontri entro il 5 marzo. Crediamo sia davvero arrivato il momento di rinnovare il contratto dei lavoratori dell’industria, rimasti gli unici in attesa di soluzione dopo il positivo risultato raggiunto con le controparti degli artigiani e delle piccole e medie imprese. La Fillea, ma tutti i sindacati in generale, ritengono riduttiva e inaccettabile la proposta dell’Ance di un aumento salariale pari a 60 euro al parametro 100: “Che voglio ricordare, rispetto all’aumento di zero euro che ci era stato prospettato nell’incontro di novembre, una vera provocazione, si tratta certamente di un passo in avanti, ma è comunque una cifra ancora troppo lontana dalle nostre richieste. Inoltre, far slittare la prima tranche al 2015, così come chiedono Ance e Coop, vorrebbe dire lasciare i lavoratori senza aumento per due anni, con un ulteriore sacrificio che non è possibile chiedere”. Cosi come rimane ferma la nostra contrarietà alla richiesta datoriale di slittamento della validità del contratto al 31 dicembre del 2016, mentre restano confermate le distanze sul Premio Ape e la riorganizzazione degli Enti bilaterali. Speriamo in un sussulto di civiltà che porti la nostra controparte ad un ripensamento, considerato che il negoziato proseguirà il, 4 e 5 marzo, considerato che il vero obbiettivo dell’Ance rimane quello di cancellare il CCNL Nazionale e la riforma organizzativa. Per quanto ci riguarda nessuna crisi può giustificare l’azzeramento del ruolo del CCNL, ne tanto meno può essere usata per scaricarne il costo sui lavoratori. Crisi, che non può essere utilizzata come pretesto per ostacolare la strada ai rinnovi contrattuali, credo dovremo iniziare da subito a cambiare il nostro atteggiamento nei confronti di quell’associazione, prima ancora che a Roma, ognuno nel proprio territorio. Per Noi il Contratto Nazionale è il pilastro di difesa dei diritti universali dei lavoratori, ma non solo, in uno stato che va verso una riforma istituzionale federale, rappresenta una regola del mercato certa ed esigibile in una situazione complessa come quella italiana già soggetto a forte spinte campanilistiche e corporative. Per queste ragioni, ritengo si debba cambiare rotta, iniziando a far capire all’Ance che non sono più il centro del mondo, che non possono continuare a pensare di utilizzare anche loro la crisi per fare cassa, o peggio di carpire la buona fede e l’onestà intellettuale di chi ha appoggiato richieste, che loro hanno inteso in un'unica direzione. Magari iniziando a togliere la nostra sigla dalla Consulta delle Costruzioni. L’emergenza economica e sociale ci impone di sfruttare anche l’occasione che il nostro congresso ci offre, per capirne le ragioni, e quali possano essere gli obbiettivi futuri, liberi da logiche di schieramento. Gli anni alle nostre spalle, cosi come già detto, sono stati devastanti, probabilmente non eravamo preparati a una crisi che non ha precedenti nella storia. Per queste ragioni, abbiamo utilizzato questo congresso, anche per definire il nostro agire quotidiano, per ascoltare la nostra gente e le esigenze che questa ha, al fine di poterle tradurre in un documento che impegnerà il gruppo dirigente che oggi verrà eletto. Perché la nostra azione sia sempre rivolta a restituire dignità alla persona che lavora, che produce, deve sempre essere la premessa per uscire dalla crisi e per proiettarci verso un futuro migliore. Oggi il conflitto è tra chi agisce per difendere gli interessi dei mercati finanziari e della rendita, e tra chi come noi uomini e donne di questa organizzazione, agisce per far valere gli interessi dei lavoratori, e quindi dell’economia reale. Questa in fondo è la nostra ragione e la nostra natura del nostro impegno quotidiano. Consideriamo da sempre il tema dell’unità, una questione sulla quale indirizzare tutti gli sforzi necessari, soprattutto in un momento come quello attuale, dove qualcuno molto poco disinteressato alla spaccatura del sindacato, e che di fronte ai segnali di vitalità dell’iniziativa sindacale unitaria, cerca sempre inesorabilmente di gettare il veleno della divisione. Non mi riferisco solo a Berlusconi, ma a quanti provano ad iniettare quel virus, a volte stando dentro alle stesse OO.SS. Per questo dobbiamo impegnarci a lavorare su un terreno che è fatto di problemi concreti, di analisi e proposte, di concezioni del sindacato e della sua funzione. L’unità sindacale, è il terreno del merito politico sindacale sul quale, questo confronto può avvenire. Questi sono giorni complessi, rispetto alla fase politica che si sta vivendo nel Paese e nella nostra Regione, si parla un po’ di tutto, ma rileviamo soprattutto un dato. Il lavoro e i suoi valori sono troppo residuali, bisogna dare al lavoro la centralità che merita, svolgendo fino in fondo e in autonomia il nostro ruolo, lasciando ad altri il tifo per questo o quel candidato al titolo di Premier o Governatore. Non è un caso che lo slogan del nostro Congresso evidenzi i temi che intendiamo sviluppare per traghettare un nuovo modello di sviluppo per il settore delle costruzioni. E’ oramai da tempo, che la Fillea e la CGIL hanno messo al centro della propria iniziativa i temi della qualità, della sicurezza, della legalità e oggi, come e più di ieri, non possono che essere queste le coordinate strategiche e la colonna vertebrale di un nuovo modello di sviluppo, dove emergenza, vulnerabilità, consumo sfrenato del territorio, lascino il posto alla programmazione e alla sostenibilità. Come sindacato infatti, pensiamo che passano per l’innovazione ambientale del settore edilizio diverse sfide cruciali per il nostro Paese. Perché la via di uscita da una crisi drammatica che dura da sei anni - oltre 600mila posti di lavoro persi nelle costruzioni e 12mila imprese chiuse, può essere trovata solo con un profondo cambiamento e trasformazione del settore. Nessuno può seriamente sostenere che si possano recuperare quei livelli occupazionali ritornando semplicemente a fare quello che si faceva in Italia fino al 2008. Ossia costruire nuove abitazioni al ritmo di 300mila all’anno, con oltretutto la beffa di non aver contribuito in alcun modo a dare risposta ai problemi di accesso alla casa e invece prodotto un rilevantissimo consumo di suolo. E’ per noi importante ribadirlo in ogni occasione: le ragioni di questa crisi non sono solo congiunturali, è cambiato il mondo e si sono modificate le condizioni che hanno tenuto in piedi la bolla immobiliare dalla metà degli anni novanta. Altrettanto importante è sottolineare come una strada per tornare a creare lavoro esiste, in altri Paesi ha addirittura portato a creare più occupati in questo settore di una gestione “tradizionale”. E’ diversa da quella che conosciamo perché punta su un' innovazione in edilizia che incrocia il tema energia e la nuova domanda di qualità delle abitazioni e di spazi adatti alle nuove famiglie. E’ differente, perché porta a far tornare l’attenzione e gli interventi dentro le città, per ripensare edifici e riqualificare gli spazi urbani. Ma risulta quanto mai importante perché in un processo edilizio che ha al centro la manutenzione e la rigenerazione di un patrimonio enorme come quello italiano, con problemi di degrado, in un territorio fragile, vi sono più opportunità di lavoro rispetto a continuare a occupare nuovi suoli liberi. Non è un cambiamento semplice, perché è innanzi tutto culturale e deve riguardare tutti gli attori della filiera delle costruzioni, le pubbliche amministrazioni, l’organizzazione del lavoro. Ma oggi è ampio il consenso nell’opinione pubblica sulla necessità di dare risposta ai grandi rischi del territorio italiano - quello statico degli edifici e quello sismico e idrogeologico del territorio - con una visione e una strategia che li sappia tenere assieme, che consenta di smetterla di inseguire emergenze sprecando risorse pubbliche per riparare i danni e spostando attenzioni e investimenti su prevenzione, manutenzione, innovazione. In questi anni si è perso troppo tempo, i Governi hanno agito o nella direzione di favorire il rafforzamento di una idea di edilizia speculatrice e divoratrice di territorio, cioè attraverso le logiche delle sanatorie, dell'abbassamento dei vincoli edificatori e delle regole, o, nel migliore dei casi, con poco coraggio, come dimostra anche la legge di stabilità. E quindi incentivi non strutturali e assenza di una politica industriale capace di sostenere un processo di riconversione alla sostenibilità delle imprese del comparto edile. Occorre un vero e proprio salto di qualità per trasformare la crisi strutturale e congiunturale che sta attraversando il settore, in opportunità concreta per rimetterlo sul binario della regolarità, della legalità e della sostenibilità ambientale e sociale". "Un salto che sarà possibile, come già detto, solo se tutti gli attori faranno la propria parte. A cominciare dal Governo, il cui ruolo è quello di dare l'orizzonte strategico, impegnare risorse in questa direzione e stabilire regole per accompagnare e sostenere questa 'rivoluzione' del modello produttivo italiano delle costruzioni". Occorrono dunque decisioni politiche per accompagnare questo cambiamento e il coraggio di chiudere le porte con le stagioni dei condoni e di un'edilizia caratterizzata dalla forte presenza di lavoro nero e dove continuano ad esserci troppi omicidi sul lavoro". Le prossime sfide, saranno fondamentali per il settore. "Un banco di prova importante, sarà quello dell'efficienza energetica, su cui l'Europa prevede impegni chiari e vincolanti da parte degli Stati per fare della stessa, la chiave per una riqualificazione diffusa e ambiziosa del patrimonio edilizio". "Ci sono importanti risorse, il governo deve approvare entro aprile 2014 una strategia nazionale, e individuare interventi di riqualificazione del patrimonio pubblico e privato da finanziare e realizzare". "Ma per non perdere queste opportunità, occorre creare finalmente una regia nazionale per gli interventi di efficienza energetica e di riqualificazione urbana in coerenza con le direttive e la programmazione europea e in modo da individuare i criteri per selezionare le priorità e gli interventi da finanziare". Per quanto ci riguarda come sindacato delle costruzioni, una regia nazionale risulta indispensabile per scegliere e coordinare gli interventi prioritari. "Per la riqualificazione del patrimonio edilizio pubblico, in particolare, la direttiva stabilisce che dal gennaio 2014 ogni anno siano realizzati interventi di ristrutturazione in almeno il 3% delle superfici coperte utili totali degli edifici riscaldati e raffreddati di proprietà pubblica per rispettare almeno i requisiti minimi di prestazione energetica della direttiva 2010/31 con l'obiettivo di svolgere 'un ruolo esemplare degli edifici degli enti pubblici”. Il nostro è un settore dove le contraddizioni fanno a pugni con i risultati positivi, infatti sino alla metà del 2009, abbiamo registrato l’inesistenza di un rapporto automatico fra una crescita economica, durata un decennio circa e qualità. Questa non vuole essere una sottovalutazione o peggio ancora un giudizio negativo sul lavoro fatto in questi anni, ma non dobbiamo ingannarci a vicenda su come materialmente stanno le cose nei cantieri edili e nei luoghi di lavoro anche di altri settori, non c’è un sostanziale cambiamento nelle condizioni materiali di lavoro delle persone che rappresentiamo, anzi. Per riguadagnare una maggiore dignità nel nostro settore è necessario introdurre cambiamenti radicali, quello che noi vorremmo provocare è un sussulto culturale che sappia guardare oltre gli interessi più immediati ed egoistici, che faccia della nostra iniziativa sindacale e di partenariato, innanzitutto, una battaglia di civiltà che restituisca dignità al settore. La nostra non è una critica indistinta e generalizzata. Riconosciamo che ci sono settori dell’impresa che provano a stare su un terreno qualificato. Ma al tempo stesso esiste una parte di questo sistema e noi pensiamo, purtroppo sia quello prevalente, che cerca di fare fortune lasciando le cose come stanno. Il ricorso esasperato al subappalto è una malattia che ha preso non solo le imprese impegnate nel settore privato ( i cosi detti palazzinari) , ma anche quelle imprese più strutturate che operano prevalentemente negli appalti pubblici, dimostrando che la piaga va dilatandosi, siamo passati negli anni della crisi da soggetti imprenditoriali che si limitano ad acquisire gli appalti, che in cambio di una percentuale certa di utile (che sta solitamente intorno al 10% dell’opera), girano di fatto il lavoro ad altri. Ad altri, che attraverso il reclutamento che passa per le agenzie interinali (quando va bene), o addirittura attraverso cooperative che somministrano mano d’opera, in maniera mascherata. Questo è solo l’ultimo degli accorgimenti utilizzato da quelle imprese, che sino a ieri costringevano i propri dipendenti ad aprire una partita iva, al fine di scaricare oltre agli oneri di natura economica anche quelli derivanti dal rapporto di lavoro subordinato. Queste cose determinano prima di tutto più precarietà in un lavoro già precario, ed inoltre, scarica attraverso una scarsa qualità dell’opera, il fatto che per poter stare dentro le spese, si aumenti la produzione. Per questi motivi vogliamo affermare con forza che la nostra battaglia per la qualità del lavoro in questo settore è innanzitutto una battaglia di dignità delle persone, una dignità spesso negata. Attenzione, non vogliamo dire che questa è la realtà dell’intero comparto, ma la verità in tanti posti di lavoro, e soprattutto in quei cantieri, dove queste pratiche vengono importate da altri settori, basti vedere all’interno del Cantiere Ma.Tri.Ca., come vengono assunti i lavoratori metalmeccanici. Sarà quindi dalle scelte che andremo a fare che, sarà dettato il lavoro per i prossimi mesi, a partire dal tema della sicurezza. Mi sono impegnato, già nel Congresso precedente, su questo tema, in primis con Filca e Feneal affinché venisse istituita la figura dell’RLST, che ancora, solo per nostra colpa, non è funzionante. Oggi non ci possono più essere alibi, visto che da anni ci sono centinaia di migliaia di Euro accantonati e fra l’altro lo stesso testo unico sulla sicurezza, impone questa figura. Voglio ricordare, tra l’altro che queste risorse, essendo destinate ai lavoratori, attraverso questa figura, non possono ancora una volta, essere tenute in un cassetto a maturare interessi a scapito dei lavoratori, in attesa che i dirigenti sindacali si mettano d’accordo su quale tipo di struttura dovrà prendere in carico dette figure. Cari, amici e compagni, è giunto il momento, considerato che la storia non ci aspetta, ma che soprattutto le risorse sono dei lavoratori, la dove non troveremo la quadra; perché le stesse vengano spese in quella direzione, entro la fine di quest’anno, farò quanto in mio potere, per rimettere quelle somme in altre prestazioni che diano comunque risposte ai lavoratori. Il 16 febbraio è stato eletto il nuovo esecutivoregionale, credo sarebbe serio, da parte loro, a prescindere dal colore, come Regione Sardegna riaprire un confronto con lo Stato, per avere il riconoscimento dello status di insularità, che ancora ci viene negato. Questo andrebbe realizzato, attraverso un provvedimento legislativo, (lasciando, considerata chiusa la tornata elettorale, la demagogia che sull’argomento della zona franca si è fatta), che contenga misure atte a riconoscere alla Sardegna dei vantaggi fiscali ed economici che ne consentano condizioni paritarie di competitività con le economie del continente, con particolare riferimento alla questione dei trasporti, e del sistema energetico, che devono essere legati alla creazione di infrastrutture che servono per far si che questo territorio esca da una crisi profonda dove con l’abbandono da parte dell’Eni del polo industriale di Porto Torres, si possa ritrovare con il completamento dello scalo marittimo turritano la via di un definitivo rilancio. Sperando di non cadere in errore, cosi come purtroppo fece, approfittando della crisi, la Giunta Capellacci, che con la scusa di dare risposte occupazionali, stravolgendo il piano urbanistico regionale, varato dalla Giunta Soru, abbassandone i vincoli che impedivano di costruire in aree geologicamente fragili, e attraverso le varie autorizzazioni Regionali, la dove non potevano bastare i PUC, ha permesso quelle catastrofi che le genti di Gallura e non solo, hanno pagato con un tributo di vite umane. Che, voglio ricordare, aveva il merito di tutelare la fascia costiera e le zone interne della nostra isola, contro la speculazione selvaggia, che non escludo possa riaffacciarsi a discapito di molti, e soprattutto delle future generazioni. Questo servirebbe a dare non una ma due risposte, la prima va indubbiamente incontro alla crisi occupazionale, considerato che solo nella vecchia Provincia di Sassari nell’ultimo anno si sono persi, solo nel solo settore edile in senso stretto, circa millecinquecento posti di lavoro, che vanno a sommarsi alle migliaia degli anni precedenti. E la seconda verso la conservazione del suolo nel rispetto dell’ambiente. Bisogna che l’esecutivo appena insediato, tracci un piano Regionale dei Trasporti; dove appaiono prioritari per lo sviluppo dell’intera regione Sardegna, interventi che contemplino la messa a regime del sistema portuale, nell’ottica della creazione di un polo di interscambio di Alghero e Sassari, in modo da costituire un funzionamento a sistema, che garantisca una effettiva integrazione tra queste distinte realtà, facendole diventare un unico hub di riferimento all’interno della rete di trasporti nazionale. Purtroppo siamo in attesa di vedere conclusa la parte della banchina di ponente, che ancora non permette di attenuare le problematiche di natura meteo marine, per il facile accesso delle navi nel porto commerciale, e che, considerata la grave crisi economica e occupazionale che investe tutto il territorio del sassarese, garantirebbe nell’immediato più di cento posti di lavoro tra diretti e indotto. Altro punto nodale riveste la costruzione del 5° gruppo di Fiume Santo, che con l’abbattimento del primo e secondo gruppo a carbone, oltre a riconsegnare un tratto di spiaggia e di mare ai comuni interessati, garantirebbe una boccata d’ossigeno, non solo agli edili, ma anche e soprattutto ai lavoratori che sono impegnati oggi nella costruzione del primo impianto di chimica verde Ma.Tri.Ca, che sappiamo già dal mese prossimo, prevedere diverse espulsioni di lavoratori dal ciclo produttivo. La drammatica situazione in cui versa il comparto edile nel nostro territorio, è visibile attraverso i dati forniti dalla Cassa edile del Nord Sardegna, nella quale si è registrato quasi il 50% di addetti in meno, nel raffronto fra il 2009 e il 2013, dati questi fra i peggiori d’Italia, determinando ad oggi quasi 5000 licenziamenti fra gli operai edili, che hanno perso il posto di lavoro nella provincia di Sassari. Altri dati che ci aiutano nell’analisi di una più approfondita conoscenza del settore ci dicono, che questo territorio è fortemente condizionato dal nanismo delle imprese locali, dove le stesse non affrontano questo problema in maniera significativa, magari ripensando, di frenare quella deriva, cercando di consorziarsi al fine di partecipare a quelli appalti che solitamente le vedono confinate ai margini di opere che altri si aggiudicano, e al massimo gli concedono le briciole, cosi come si è fatto, con i lotti della strada Sassari - Olbia. Opera questa che avrebbe dato una boccata d’ossigeno se fosse partita, se pur divisa in lotti, contemporaneamente, dando cosi l’opportunità di lavoro a qualche centinaia di lavoratori. Crediamo , pertanto, opportuno, dopo il congresso, stilare assieme alla FILCA e alla FENEAL una piattaforma unitaria, che ci veda protagonisti nel rivendicare investimenti da parte degli EE.PP., confrontandoci da subito con la Provincia e i Comuni dell’area del triangolo industriale Sassari Alghero e Porto Torres, con lo scopo principale di far partire nell’immediato tutti i lavori spendibili, di piccola entità, per arrivare anche a quelle opere, come appunto il completamento del porto di Porto Torres e le varie strade di collegamento Provinciali, che darebbero un impulso notevole al settore edile in particolare e a quello delle costruzioni più in generale, applicando per le stesse quella contrattazione d’anticipo che per quanto prevista nel settore, non ci risulta sia mai stata applicata, in questo territorio, nonostante la creazione della “Consulta” (entità che ribadisco) dalla quale usciremo. Senza dimenticare la messa in sicurezza di tutti gli edifici pubblici di Comuni e Provincia ad iniziare dalle scuole. Conseguenza del crollo dell’edilizia, è la crisi del settore dei laterizi, per questa categoria, che come importanza per numero di addetti è il secondo dopo gli edili. Un comparto che leggendo i dati del tesseramento può sembrare in contro tendenza, ma che invece è stato colpito pesantemente dalla crisi economica in atto. In questo settore infatti sono state cancellate aziende come la Laterizi Torres, che con la sentenza del 27/12/2013 è stata dichiarata fallita, ed altre, che sempre a causa del blocco quasi totale di nuove costruzioni, versano in situazioni critiche. Fra queste, un’altra azienda storica la Sarda Laterizi, dove sono impegnati circa 30 lavoratori, che sino ad oggi, solo attraverso l’utilizzo degli ammortizzatori sociali, siamo riusciti ad evitarne i licenziamenti. Lo stesso dicasi per i gruppi produttivi dei manufatti in cemento (che fanno capo alla famiglia Brozzu, con cui proprio nei giorni appena trascorsi abbiamo siglato accordi per cassa integrazione in deroga e mobilità), dove la crisi non permette di avere garanzie di tenuta, stiamo parlando di più di 150 addetti, fra AICO AICOP e COINSAR nonostante, siano considerate valide tecnologicamente se confrontate col mercato sardo. In generale, questa crisi ha evidenziato da una parte la scarsa propensione da parte sia dell’imprenditoria locale, che della politica regionale, alla programmazione, infatti, nel momento in cui servivano più liquidità per eventuali investimenti, questi si ritrovavano con le casse vuote in quanto già indebitati in precedenza, non avendo captato i segnali, o avendoli in qualche modo sottovalutati. Se poi considerato che il costo dei prodotti finiti e soprattutto da imputare all’alto costo energetico che questi pagano, e che questo è dovuto soprattutto al fatto che qui manca una politica regionale sull’energia, che punti a abbassare i costi di produzione delle industrie manifatturiere, dimezzando il costo della mano d’opera attraverso la decontribuzione da applicare a quelle aziende che investono in innovazione e sicurezza, saranno costrette inesorabilmente a soccombere nei confronti di una concorrenza che arriva da oltre mare. La stessa cosa vale per il settore lapideo, che si è oramai cronicizzata, in una crisi che viene da lontano, in quanto prima ancora del crollo delle borse, era minato dalla concorrenza cinese, che ha saturato il mercato Europeo con costi improponibili per gli imprenditori locali, che se pur avevano un prodotto migliore dal punto di vista qualitativo, che consentiva di mantenere il mercati giapponese ed arabo, con la crisi post 28 settembre, cercano disperatamente di galleggiare, cercando di mantenere occupata la forza lavoro, attraverso tutti gli strumenti che si possono attivare. Per quanto attiene il settore del legno, nel nostro territorio in questi ultimi anni sono poche le aziende che si sono mantenute in piedi, fra queste la Deriu & Lupinu, è senz’altro quella degna di nota, infatti nata quasi come azienda artigiana, ha avuto un espansione che con il trasferimento dello stabilimento, da Ittiri alla Zona industriale di San Marco di Alghero, impiega decine di lavoratori, in locali attrezzati con le più moderne macchine per la lavorazione e la lucidatura del legno, in rispetto delle norme di sicurezza, che solo da metà 2013, ha fatto ricorso alla cassa integrazione. Sempre in questo settore, oramai da qualche anno, abbiamo perso ogni speranza di veder rilanciare il settore della nautica dove eravamo riusciti a rappresentare diverse decine di lavoratori entrando nello stabilimento della Terranova Yacht. La quale ha concluso la propria esperienza essendo stata dichiarata fallita. Ancora una volta, abbiamo dovuto registrare di esserci trovati di fronte, al solito imprenditore d’assalto che sbarca in Sardegna, per raccogliere a mani basse dal pubblico, e lasciando con le mani vuote i lavoratori e i fornitori locali, aggiungendo al danno la beffa. Per questo motivo chiediamo alle istituzioni, come enti erogatori di contributi, oltre a controllare il pedigree di questi pseudo imprenditori, prima ancora di permettergli di impiantare alcunché, come in questo caso. Se non sia giunto il momento, di rendersi protagonisti della rinascita di questo territorio, attraverso il crollo e le conseguenti bonifiche delle aree occupate dall’ENI a Porto Torres. Lavori questi, che oltre ad offrire, le condizioni, che attraverso l’infrastrutturazione di quella zona, diventerebbe appetibile a chi volesse intraprendere impresa, offrirebbbero alle stesse di utilizzare l’alta professionalità che con gli anni, quello stabilimento ha creato, e che oggi nostro malgrado, esportiamo in diversi continenti. Per quanto riguarda il cemento, questo comparto, con la chiusura dello storico stabilimento di Scala di Giocca da parte di Italcementi, e la messa in mobilità di tutto il personale, abbiamo perso l’ennesimo stabilimento produttivo, in un area che grazie alle non scelte della politica, oltre a non aver visto bonificare l’area, si trasformerà, nella migliore delle ipotesi, in un centro di smistamento del prodotto lavorato a Sammatzai. Prima di avviarmi alle conclusioni, voglio ringraziare tutto il gruppo dirigente della Fillea, per l’impegno profuso in questi anni, che ci hanno visto protagonisti di tante battaglie, supportandoci e qualche volta anche sopportandoci, la dove queste sono apparse difficili, e magari non sempre, siamo riusciti a conseguire i risultati sperati. Un saluto particolare a Stefano, che con la sua pacatezza, certo non priva di determinazione, si è dimostrato all’altezza del ruolo ricoperto in categoria, dove è entrato in punta di piedi, mettendosi a disposizione e riuscendo a farsi apprezzare, per i modi e la preparazione che ha dimostrato nel suo agire quotidiano, e che per il momento che stiamo attraversando, carico di non pochi oneri. Concludendo, Si sa, che per fare un viaggio, il più bello possibile, scegliere i compagni di avventura, è fondamentale, pertanto voglio chiudere questo intervento con un ringraziamento particolare a Patrizia che, in questi ultimi mesi, come sapete con spirito di sacrificio è andata a dare una mano ai Compagni della Filcams, e che, oltre all’apporto materiale, in questi anni mi è stata di supporto, anche in momenti, dove lo stress e la fatica, prendeva il sopravvento, e la Compagna, con il suo modo di fare, magari sdrammatizzando ha aiutato a superare. L’augurio che faccio a tutti noi e di ritrovarne se non una uguale, tanta altre con le stesse caratteristiche. Ancora con un grazie sincero a tutti voi per la pazienza, che avete dimostrato anche oggi, con la speranza che da qui si possa ripartire, per rilanciare il lavoro attraverso il quale rendere sempre più grande il nostro sindacato. W la Fillea la W la CGIL.

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