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La bozza dell'intervento di Alessandro Genovesi alla Conferenza di Programma della Cgil "Buon lavoro. Governare l'innovazione, contrattare la digitalizzazione", in corso di svolgimento a Milano         

GENOVESI: BOZZA DI INTERVENTO

Con la Conferenza di Programma proviamo a collocare la nostra discussione in un “vortice” economico, produttivo e politico che ci deve vedere impegnati, non tanto in un bilancio sul nostro lavoro passato, quanto e soprattutto in uno sforzo di ricerca comune di nuove idee, nuove pratiche, nuovi strumenti per fronteggiare prima di tutto la SFIDA DEMOCRATICA che i nuovi paradigmi produttivi ci pongono. 

Essendo per noi inscindibili i diritti sociali, la loro concreta esigibilità e la DEMOCRAZIA.

Proverò quindi a riflettere sul nesso tra:

  • Trasformazioni tecnologiche- cambiamento dell’impresa- democrazia per come si pone di fronte ad un soggetto sindacale di natura confederale, quale noi siamo (quindi non solo democrazia economica, classicamente intesa). Soggetto confederale che nella contrattazione, nella proposta politica e nella rappresentanza ambisce alla trasformazione del modello produttivo in termini di maggiore giustizia sociale e quindi in termini di rapporti sociali più avanzati. Non mera difesa dell’esistente – in quanto ingiusto – non mera difesa di interessi corporativi in quanto parziali.

2 PAROLE DI INQUADRAMENTO. Veniamo da anni di crisi. Una crisi sviluppatasi per eccesso di produzione rispetto alle capacità di consumo, a livello internazionale, con forte specificità nazionali che riassumo nel mix alto debito pubblico/quindi minore capacità di spesa anti ciclica, fragilità del sistema imprenditoriale anche per questioni dimensionali, numerosi colli di bottiglia di sistema - tema delle infrastrutture, dei costi energetici, dei costi logistici, del credito, dell’inefficienza della P.A. e della giustizia civile. In questa crisi abbiamo assistito – anche nelle nostre strategie difensive – al prolungamento tacito del patto del 93/96: bassi salari in cambio di un ampliamento della base occupazionale, praticando in maniera residuale la contrattazione su investimenti e organizzazione del lavoro. 

Accanto a questo, abbiamo provato a tenere aperta una via micro economica di spesa pubblica (Piano del Lavoro) e una via politica, tutta mercato lavoristica, per continuare a coltivare una risposta generalista alla frantumazione del lavoro (Carta dei diritti). 

Il tutto all’interno di un contesto politico – da Monti a Renzi per semplificare – dove l’interlocuzione politica ha scientemente lavorato a non riconoscere la funzione generale del sindacato (con Monti in chiave econometria, stile BCE, ricordate la lettera dell’epoca e l’attacco al contratto nazionale; con Renzi in chiave più ideologica, secondo un’idea semplificatoria della dialettica democratica). 

Un contesto cioè che rimuoveva tanto i termini del governo democratico del conflitto, quanto della pluri dimensionalità di una democrazia matura che vive di dialettica sociale.

Abbiamo fatto bene? Si. Abbiamo retto? In gran parte si. Oggi può bastare senza riarticolare, la nostra strategia in contesti nuovi (la trasformazione tecnologica e spazi di ripresa economica sia a livello nazionale che internazionale)? No. Il clima e gli scenari politici ci aiuteranno? Non è detto.

Oggi quindi dobbiamo ri posizionare la nostra strategia e lo dobbiamo fare cogliendo le occasioni (e non solo i problemi) che i nuovi scenari ci possono offrire. 

Il nostro ruolo oggi è più riconosciuto di prima (Gentiloni non è stato Renzi, i tavoli sono stati aperti, accordi o intese anche a livello settoriale sono stati fatti: penso a contratti pubblici, a gestione del Codice degli Appalti, al Piano Connettere l’Italia, alla gestione della ricostruzione nel Centro Italia, alle politiche sulla domanda per la rigenerazione del costruito, per stare da ultimo sui punti più vicini alla Categoria), qualche margine sui conti pubblici lo abbiamo, la stessa funzione di incentivazione del cambio tecnologico anche se con ritardi e contraddizioni è stata avviata con Industria 4.0 di Calenda e con le positive evoluzioni anche nell’ultima legge di stabilità (incentivi a fronte di accordi sulla formazione). Un processo di selezione sul mercato non solo in un’ottica di competizione del costo del lavoro è meno difficile di prima. 

E veniamo ai “nodi” politici di fondo: quale programmazione, quale ruolo dell’Ue e dello Stato Nazionale, quale ruolo della contrattazione e dell’azione sindacale, quali alleanze nel mondo del lavoro e con altre soggettività per garantire che le trasformazioni siano occasioni di libertà e di miglioramento generale e quindi elementi di attuazione reale di scelte democratiche e non ulteriori occasioni di divisione, impoverimento, selezione di classe? 

Lo scontro in atto, in un settore come quello delle costruzioni è , da questo punto di vista, paradigmatico: la lotta al lavoro nero e alle sottodichiarazioni, la lotta al dumping contrattuale sono la precondizione per una politica di qualificazione dell’impresa e del lavoro, non l’obiettivo finale. 

Ma dico di più: lo scontro in atto non è solo nella “quantità” di innovazione, di industrializzazione dei cantieri, di professionalità necessarie, da riconvertire o “costruire” per passare dal modello della costruzione al modello del recupero, della rigenerazione, del risparmio energetico, della “domotizzazione” dell’ambiente costruito: il tema è la declinazione in chiave nuova di un modello democratico e partecipativo (sindacale in primis ma non solo) per governare il processo, dando una nuova missione al bilateralismo che da noi è strumento contrattuale, ma è anche e soprattutto dimensione collettiva ove il singolo lavoratore, disperso nel ciclo e nella carriera, può agire attraverso la propria organizzazione. Non ci basta avere un’edilizia ed un industria dei materiali in grado di rispondere alle nuove domande che le trasformazioni demografiche, di stili di consumo, di sensibilità ambientale, di riconfigurazione urbana delle metropoli pongono al settore.  Ci interessa un sistema in cui tali processi non siano unilaterali, quindi in mano a pochi (detentori di risorse e conoscenza) sia all’interno del ciclo (lavoratori 4.0 versus forza bruta) che all’esterno (comunità politica, amministratori, cittadini).

E quindi dobbiamo porci il tema di quanto i nuovi processi tecnologici e di impresa siano:

  • Collettivi;
  • Partecipativi;
  • Redistributivi.

Per inverare la trasformazione di anticorpi democratici, nel senso pieno della parola.

Ciò rimanda a 4 titoli:

  1. PRIMO TITOLO. Come si crea un ambiente che favorisca innovazione, crescita di Valore Aggiunto (quindi produttività) e al contempo come ciò avvenga con un ruolo collettivo della Res Pubblica? Intesa come Ue, come Stato Nazionale, ma anche come comunità locale. Non è un tema diverso da quale riforma della P.A., garante della terzietà, per portare non solo innovazione nei processi delle PP.AA. ma per fare in modo che le PP.AA. siano al servizio dell’innovazione del Paese, motore di alfabetizzazione diffusa della popolazione, motore di digitalizzazione delle informazioni a servizio di cittadini e imprese, garante di Big Data in forma Open cui informazioni sono patrimonio collettivo e pubblico. 

Non è un tema diverso da quale intervento pubblico in economia: sia in termini di produzione di lavoro e servizi con le sue aziende partecipate sia in termini di Agente regolatore. E’ il tema della nuove politiche dello Stato Innovatore che si fa protagonista produttivo, che rafforza in coerenza con la nostra azione anche di protocolli e accordi su Piani anti dissesto, su Casa Italia,  la programmazione degli investimenti già fatti, ecc. 

E’ anche e soprattutto il tema di un Welfare universale su base sussidiaria che tanto a livello nazionale che locale si fa carico della redistribuzione a fronte dei cambi tecnologici e produttivi.

Redistribuzione di Lavoro, se con la “quarta rivoluzione industriale”, pervasiva e non di una singola tecnologia o forza motrice, si allontana l’orizzonte della Piena occupazione. 

Redistribuzione di Risorse, cioè nei periodi di non lavoro, nei periodi di formazione, nei periodi di lavoro non subordinato vanno garantiti reddito e assistenza.

Redistribuzione di Occasioni (accesso a percorsi formativi pubblici, di assistenza nella fasi di passaggio, accesso a politiche attive, ecc.), perché la discriminazione potrà agire sempre più ancor prima di entrare in azienda.

 

Ed è anche il tema di una legislazione di sostegno ad una nuova stagione di contrattazione collettiva diffusa, di welfare integrativo non di consumo, di nuovo bilateralismo, di codificazione della partecipazione dei lavoratori dell’impresa, dando attuazione non solo all’articolo 39 della Costituzione ma anche dell’art. 46.

2- SECONDO TITOLO. Quali relazioni industriali, quale modello contrattuale, quali strumenti sindacali, perché il “patto tra produttori” metta al centro la partecipazione dei lavoratori, il loro essere portatori di conoscenze, oltre la “camicia di forza” di standard contrattuali che rendono uguale ciò che è diverso? Allora relazioni industriali che puntini a CCNL minori per numero ma certi nei perimetri; certi sul salario come variabile oltre l’inflazione per attuare “la frusta salariale” dell’incentivazione agli investimenti in capitale, ma che, rispetto ad oggi, mettano a disposizione risorse (anche normative) per allargare la contrattazione di 2° livello oltre le attuali coperture (solo il 20% dei lavoratori) con una visione più decentrata e territoriale rispetto a qualifiche, professionalità, flessibilità organizzative. 

Abbandonando anche noi l’illusione sovrastrutturale che le soluzioni si trovino tutte o nel mercato del lavoro (basta ridurre le tipologie) o in strategie meramente “redistributive” del lavoro che c’è. 

DOBBIAMO AGGREDIRE IL COME SI PRODUCE, PIU’ DEL CHI PRODUCE. IL COSA SI PRODUCE PIU’ DEL DOVE SI PRODUCE.

Così, forse, potremmo alla lunga ridisegnare la “casematte” produttive, per parafrase Gramsci, dove il Valore Aggiunto non è più confinato solo in una parte della filiera, dove i flussi di lavoro esternalizzato non sono per forza solo verso aree e paesi dove il costo del lavoro sia più basso.

Dovremmo sempre di più analizzare e contrattare azienda per azienda, sistema per sistema, territorio per territorio, sapendo che tra i tre termini azienda-sistema-territorio i flussi non per forza saranno “statici” o predefiniti per sempre.

 

Con delle linee guida forti, certo, magari dentro i CCNL, ma con quella flessibilità e resilienza a cui non siamo abituati: dove diviene fondamentale una nuova orizzontalità delle pratiche contrattuali, dove la difesa delle competenze, la riconversione e l’accompagnamento di generazioni non native digitalmente, le riduzioni e articolazioni dell’orario tanto dentro che fuori dall’azienda potranno avere soluzioni diverse per produzioni e organizzazioni diverse e potranno essere solo “parte della strumentazione”.

E dove la dimensione del territorio e quindi di un welfare di prossimità sarà fondamentale per garantire quella redistribuzione di lavoro, reddito, occasioni di cui parlavo prima. Perché dovremmo governare riconversioni dentro le aziende, ma anche discontinuità e protezione fuori da esse. Per evitare, questo il nuovo paradosso, che il lavoro sia il più importante fattore di discriminazione e non più di inclusione.

Per queste ragioni utilizzo la categoria della DEMOCRAZIA REALE, per provare ad offrire una chiave di lettura al nesso tra innovazione e contrattazione. 

Ricercando ancora nel nuovo equilibrio tra diritti collettivi e aspirazioni individuali quello che già Trentin, pur con mille differenze rispetto ad oggi, chiamava la categoria dei “nuovi diritti sindacali”. Il diritto alla disconnessione certo, ma soprattutto il diritto alla creatività e al suo riconoscimento, alla gestione corretta dell’informazione, il diritto alla meritocrazia, il diritto al riconoscimento salariale del progetto, nuovi luoghi e nuovi standard per misurare la stessa retribuzione aggiuntiva, oltre i minimi, ecc.

Per fare ciò occorre assumere il tema della COMPLESSITA’ e della SPERIMENTAZIONE, come dimensione “politica” contro chi è tentato di rifugiarsi nell’idea mercantilista da un lato (semplificazione ideologica della centralità dell’impresa come corpo sociale, per cui la storia è già segnata) o in idee neo populiste (sia nella versione luddista del rifiuto sia nell’idea altrettanto pericolosa della neutralità della tecnica e quindi della sua funzione di omologazione finale). Democrazia è agire realmente diritti, poteri, conflitto e mediazione nell’ambito dei rapporti produttivi o non è. 

E’ una conseguenza la discussione poi di quali strumenti. Di quali strumenti per la formazione, quali politiche per la sicurezza ed il benessere, quali strumenti per evitare la discriminazione nell’accesso al lavoro, a quella qualifica, a quel percorso di crescita professionale dentro l’azienda. E arrivo a dire: in questo contesto non ci deve spaventare neanche discutere di quale ruolo diretto può esercitare in questi campi il sindacato sul “mercato” e quale compromissione può giungere da un sistema partecipativo dei lavoratori nelle scelte aziendali.

Verrebbe facile pensare, in chiave moderna, alle nostre Casse Edili che fanno pagare alle imprese la discontinuità nel lavoro e nelle carriere, mutualizzando oneri e protezioni. Alle nostre scuole che formano, aggiornano e tramite BLEN.IT fanno incontrare domanda specializzate e offerta specializzata, riducendo al minimo discrezionalità e discriminazioni. Al nostro sistema di iscrizione sindacale, fuori dall’azienda, per garantire continuità di rappresentanza e tutela. Ai nostri CPT che assumono la sicurezza in ambito di cantiere ma anche di territorio.

Ed è evidente che vi è un nesso tra il primo e il secondo titolo: quale ambiente esterno, quale ruolo del pubblico e quale sistema di relazioni industriali “incentivare” per tenere insieme innovazione e democrazia.

 

  • TERZO TITOLO. Per fare tutto ciò su quali alleanze ed interlocuzioni dobbiamo investire? Sapendo che è già tra noi il rischio di cristallizzare una dicotomia nei rapporti reali tra “detentori” di potere (tecnologico, di sapere) e plebe delle braccia. Già tra noi vi è chi pensa che solo la spinta dal basso, dall’organizzazione delle plebi, dei poor worker, degli sconfitti dalla globalizzazione, si riesca a condizionare i processi. Non lo credo. Il tema è come entrare nel cuore nevralgico della produzione di Valore Aggiunto senza cadere sia nel “plebeismo” sia nel non più riproponibile schema del sindacato degli “operai specializzati”. Dovremmo allora, forse – perché ovviamente non ho ricette – provare a coltivare di più la dimensione di una tutela collettiva, certo, ma molto più attenta all’individuo, il suo essere agente di conoscenza ed esperienza che alimenta reti, il suo lavorare in squadra, il suo desiderio di crescita in azienda secondo valutazioni oggettivi di merito, l’importanza del progetto e non solo della mera quantità di lavoro. Una visione dove la professionalità torna al centro a monte e a valle del ciclo produttivo.

E’ il terreno di come costruire piattaforme generali che parlino di come, impiegati, quadri, professionalità “a termine” insieme alle mansioni operaie parlano e interagiscono tra loro nel processo produttivo: e penso al tema della sicurezza e del benessere, al diritto a conoscere non solo il proprio pezzettino ma l’insieme del ciclo, alla migliore organizzazione dei carichi di lavoro, di una più efficiente organizzazione del lavoro per redistribuire tempo e postazioni, mantenendo spazi di privacy e autonomia, la non discriminazione nell’accesso ai percorsi di crescita valorizzando vocazioni e aspirazioni (il famoso diritto alla creatività nel lavoro). Riposizionare questo lavoro quotidiano in categoria non è facile, troppe le resistenze tra professionalità, tra impiegati ed operai, a considerare il professionista o l’autonomo un estraneo al ciclo produttivo,ecc. MA DOBBIAMO FARLO.

I processi vanno in quella direzione, OVVIAMENTE IN MODO GRADUALE, CONTRADDITORIO, NON PER TUTTI: neo artigianalizzazione del lavoro operaio, rottura tra progettazione, esecuzione, personalizzazione, manutenzione, customer care. Ruolo del cliente come progettista attivo e non passivo. Ruolo del consumatore come colui che cede informazioni alla progettazione, valore reputazionale consegnato ad interazioni sparse nel globo…

Obiettivo di questo riposizionamento: una grande stagione di contrattazione DIFFUSA, SPERIMENTALE, APERTA AL TERRITORIO, per evitare che si rinsecchisca la nostra pianta, in quelle aziende sopra i 100 lavoratori che sono state e sono ancora l’ossatura portante della nostra rappresentanza. Certo con l’ambizione di allargare la contrattazione, ambiti e funzioni, ma senza mai dimenticare i nostri. Provare a liberarli da una cappa, facendo dell’accenno di ripresa, il terreno per sperimentare nuove cose da “redistribuire”. E torna il nesso partecipazione e democrazia come terreno anche per allargare la rappresentanza in azienda, parlare a tutte le professionalità.

Pensate a quale potenzialità vi potrebbe essere nel vincolo (a fronte di cambiamenti tecnologici, magari incentivati anche dal pubblico) alla contrattazione con le RSU e le OO.SS. per il governo delle ricadute, subordinando all’accordo, sul modello dei licenziamenti collettivi, il riconoscimento o meno dell’incentivo pubblico o un maggiore costo per l’azienda che non fa… Quali e quanti spazi per un modello partecipativo che coniugasse riconoscimento culturale delle competenze, riconoscimento delle differenze e democrazia economica.

E questo rimanda al tema delle ALLEANZE TRA SINDACATI, e al TEMA DELL’INTERLOCUZIONE CON ALTRI SOGGETTI.

Una sfida di questa portata la si può provare solo facendone il terreno di ricerca privilegiata di un’unità di azione tra tutti i lavoratori organizzati, tra tutte le RSU a partire da CISL e UIL.

E una sfida così non può rimanere confinata nell’ambito delle relazioni industriali: non solo perché sul versante del nuovo welfare chiama in causa la RES PUBLICA, le sue istituzioni, le sue modalità di finanziamento e funzionamento, ma perché porta in sé una carica di cambiamento dell’idea stessa di quale innovazione, quale rapporto tra democrazia economica e tenuta della coesione sociale, quindi democrazia politica.

Potremmo anche più facilmente, tra noi, riconoscere che tra un Renzi chiuso al confronto con le forze sociali e una fine legislatura che apre al dialogo con i sindacati, vi è una differenza da coltivare e valorizzare, proprio perché riconosce che la complessità necessita di un protagonismo che va oltre la delega elettorale. E di conseguenza il messaggio, a fronte di forme estreme di populismo semplificatore o i rigurgiti autoritari e para fascisti, potrebbe cementare proprio sul terreno della democrazia, del cambiamento democratico, un fronte largo politico e culturale che vada oltre il mondo del lavoro organizzato, le sue contraddizioni, le pulsioni egoistiche e razziste che pure lo attraversano.

Sarebbe anche il terreno privilegiato per misurare il nostro rapporto con Confindustria. Confindustria non ha ancora sciolto il nodo di fondo di quale modello di impresa e di relazioni, anzi – quando lo ha fatto, con visioni paternalistiche o autoritarie – siamo stati fin troppo silenti, fin troppo subalterni, accettando terreni come quello degli accordi di produttività vistati senza passare per un nostro ingresso in fabbrica, o come quello dell’appiattimento salariale che nega alla base proprio la nostra idea di fondo di una produttività che non poggi  sulla compressione dei costi e relativo ricatto a lavoratori, generazioni, territori. Anzi se vogliamo dircela tutta, sotto l’effetto di quella potente droga che sono stati gli sgravi alla contrattazione di 2° livello e al welfare aziendale, a fronte di isolate eccezioni, non abbiamo assistito alla corsa per sperimentare modelli di partecipazione (pur super incentivati) e lo stesso tema della digitalizzazione è entrato prepotentemente nell’agenda di Confindustria solo dopo un massiccio intervento pubblico (super ammortamenti, 4.0, ecc.) dimostrando ancora una volta l’arretratezza culturale della nostra classe imprenditoriale.

Ora è arrivato il momento della sfida e se serve del conflitto con Confindustria. 

Accettano di subordinare tutti gli incentivi pubblici legati ad investimenti all’obbligo di accordo quando ci sono ricadute occupazionali? Accettano la sfida della codecisione sulla riorganizzazione e sui piani industriali? Accettano la dimensione territoriale come ordinaria dimensione di 2° livello per tutti coloro che non hanno accordi aziendali e sosteniamo ciò con strumenti e pratiche valide, convinti che la produttività non è più fattore solo di una singola azienda, ma vive di relazioni e reti, come ci dimostra il successo delle smart factory? Questo è un tema dove anche la frusta salariale, parti di salario oltre l’inflazione sono giocabili a parer mio ma con uno scambio chiaro: più contrattazione di secondo livello, più protagonismo dei lavoratori. Una start up così renderebbe di più alla fine a noi e a loro.

  • QUARTO TEMA. Quale Cgil, quale ruolo delle nostre categorie e Camere del Lavoro, quale protagonismo dei delegati per accettare e reggere la sfida? Ci stiamo attrezzando e come? Il lavoro che si sta facendo al Centro Nazionale va nella direzione giusta, ma – e le prime responsabilità sono anche nostre – può bastare? E’ arrivato il momento di aprire e chiudere il cantiere dei nostri assetti e perimetri contrattuali. Riconoscendo una funzione salariale forte al CCNL, riconoscendo una funzione di tutela di diritti minimi uguali per tutti (compresi i nuovi diritti di cui ho già scritto), ma andando anche oltre una manutenzione che già dovevamo fare. 

E mi chiedo basta la contrattazione collettiva verticale per una corretta osmosi tra processi che sempre di più vedranno flussi “per ma anche da” l’azienda?

E’ il tema di una nuova orizzontalità da costruire insieme alle categorie non contro.  E’ il tema di come la Cdlt diventi luogo di incontro domanda offerta, garanzia di accesso alla formazione, nuove forme di mutualismo e/o bilateralità, ricomposizione in strumenti confederali che, “come un ambiente informatico”, mettono a valore i vari strumenti verticali delle categorie, welfare integrativo compreso.

Occorre attrezzare una leva di delegati, vecchi e nuovi, per questa sfida, riaprire presto e bene le scuole sindacali residenziali, costruire sedi di competenze a disposizione delle RSU, in un nuovo e positivo rapporto con esperti e alte professionalità, dare luoghi e strumenti ai delegati, anche prevedendo che una quota della canalizzazione venga lasciata a disposizione, dentro regole e modalità codificate, delle stesse RSU. 

La scommessa del Testo Unico va compiuta fino in fondo, la cessione di sovranità alle RSU va accompagnata attrezzandole veramente, tutelandole un po’ di più, anche sul terreno delle competenze, per rompere quella solitudine, quel senso di frustrazione che, anche per via della fase economica, hanno conosciuto e conoscono. Dobbiamo fidarci un po’ di più dei nostri delegati, chiamarli ad essere protagonisti sempre della nostra vita sindacale, non solo scoprirli come valore democratico aggiunto quando serve a noi dirigenti. 

 

In conclusione e scusandomi per la lunghezza, solo se rilanceremo questo nesso di fondo tra innovazione/contrattazione/libertà/democrazia, potremmo rendere chiaro il valore che per noi ha lo sviluppo dell’impresa in questa nuova era, daremo prospettiva ai movimenti di lotta dal basso, daremo senso al controllo della base sugli orientamenti e gli sviluppo delle battaglie sindacali, sulla costruzione – a cui mai dobbiamo rinunciare – di un sindacato unitario che assolva un ruolo autonomo, ma non agnostico nella dialettica interna alla rappresentanza politica. Aiuteremo a ricongiungere le funzioni delle istituzioni alle masse, oltre una visione di istituzione come corpo separato di specialisti della politica, quando va bene.

E’ sull’esatta comprensione di questo rapporto Innovazione/democrazia, nel senso proprio di precondizione alla reale democrazia politica, che si può mobilitare a pieno una nuova generazione, costruendo alleanze in grado di definire un nuovo “blocco storico” delle forze e delle energie di progresso.

In questa luce tutto il collegamento tra le nostre lotte e quelle di altre segmenti, dall’ambientalismo ai tentativi di welfare auto gestionario, potrebbe battere sia impostazioni illusionistiche perché veristiche sia settarismi, fenomeni che spesso convivono tra loro. Con la coscienza che processi complessi e faticosi, ma decisivi, possono diventare convinzioni profonda di milioni di uomini e donne. Se renderemo chiare  queste connessioni, con la nostra battaglia politica anche passata, potranno essere capiti anche nostri errori e tentennamenti e soprattutto potremmo ancora mettere la nostra forza a servizio di un’ideale di progresso che continua a vivere in quella cultura politica che chiamiamo Confederalità.

 

Facendo nostre la grande domandi di cambiamento che attraversa popoli spaventati e generazioni “di mezzo”. Un nuovo ordine sociale, un ORDINE NUOVO, in grado di sostenere il pieno dispiegarsi delle opportunità che una gestione democratica dell’innovazione e della tecnologia può liberare. E su questo nuovo patto declinare il chi finanzia (un nuovo patto fiscale e un cambiamento della base impositiva), il come si gestisce (rapporto tra pubblico e privato, tra dimensione nazionale, internazionale e dimensione di comunità), il chi deve beneficiare delle nuove scoperte (per noi tutti) con soluzioni flessibili (vale per l’accesso alla pensione, come alla formazione). Ridando senso a quella parola Valore Aggiunto che per noi è tale (aggiunto appunto) solo se va a beneficio del “demos”, del popolo.

Vai al podcast dell'intervento >>

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