Per un Nuovo Patto Sociale, in Italia e in Europa Per una modernizzazione ambientale e sociale: il contributo della Fillea Cgil al dibattito in Cgil e nel Paese.
Già nell’editoriale di aprile di “Sindacato Nuovo” scrivemmo chiaramente che l’emergenza sanitaria del Covid, come il bambino della fiaba di Anderson (“il re è nudo”), stava mettendo in luce, definitivamente, le fragilità dell’attuale modello di sviluppo, amplificando le contraddizioni registrate durante la crisi economica del 2008 e denunciate, da ultimo, da un forte e inedito movimento ambientalista.
E’ divenuta evidente la profonda interconnessione dei cicli produttivi e dei mercati, l’allungamento e dipendenza delle varie filiere, l’importanza della circolarità e disponibilità democratica delle informazioni (scientifiche prima di tutto).
In Italia è emersa la fragilità di un sistema produttivo, infrastrutturale, sociale, amministrativo colpito da decenni di scarsi investimenti pubblici e privati e da politiche per la “via bassa allo sviluppo”. Il nostro sistema di welfare pubblico ha dimostrato tutti i propri limiti, dalla sanità alla scuola, alla stessa capacità di produzione e approvvigionamento di specifiche merci, svuotato da una politica di finanza pubblica marcatamente liberista e da un sistema fiscale sempre più a maglie larghe (evasione, lavoro nero) e sempre meno progressivo.
Il tutto dentro relazioni internazionali tese (guerre commerciali, una vera e propria “terza guerra mondiale a bassa intensità” come denunciato da Papa Francesco) e con una debolezza politica dell’Unione Europea evidente (per un soffio non hanno vinto forze politiche nazionaliste e razziste).
Le ingiustizie sociali, le profonde disuguaglianze di reddito e di accesso ai sistemi di protezione e promozione sociale, la svalorizzazione del lavoro, le debolezze di sistema erano elementi già presenti nella nostra società, alimentate in Italia più che altrove, da fattori endemici che oggi ci fanno parlare di una ricostruzione come se fossimo al termine della Seconda Guerra mondiale.
Non scopriamo oggi la scarsa pianificazione economica e sociale di medio termine da parte di uno Stato indebolito da processi di finanziarizzazione mondiale e da privatizzazioni di dimensioni colossali, dal basso livello di ricerca e innovazione pubblica e privata, da uno scarso coordinamento istituzionale, da una pubblica amministrazione totalmente da re ingegnerizzare, da ritardi evidenti in termini infrastrutturali, logistici, energetici, di accesso al credito e infine, ma non per importanza, da un sistema delle imprese sottocapitalizzate, sotto dimensionate e fortemente condizionate da una insufficienza della domanda interna (non è data in natura un’economia che viva solo di esportazioni, per quanto importanti).
Le tendenze demografiche, le trasformazioni/involuzioni delle nostre città, lo svuotamento delle aree interne, l’acuirsi del divario tra i tanti Nord e Sud, le paure e la rabbia di larghi strati della popolazione, erano già presenti e stavano già alimentando forme di reazione e di intolleranza, di populismi, di svuotamento della democrazia e di attacco alle istituzioni dello Stato.
Tutto ciò non è venuto meno, con la conta quotidiana nei tg e sui giornali dei malati e dei morti!
Con la crisi però qualcosa è successo: un’evidente accelerazione e, al contempo, una presa di coscienza più diffusa che consegna margini di azione fino a poco tempo fa preclusi.
La questione oggi si pone quindi in termini più semplici: si può trasformare tutto ciò in un’occasione? Chi deve fare cosa, come, perché?
Le ingenti risorse politiche ed economiche liberate attraverso la leva del debito pubblico
(autorizzato in termini straordinari e che andrà comunque ripagato, punto questo spesso sottovalutato) e da una politica dell’Ue finalmente “espansiva”, sono una grande occasione per il nostro sistema economico, sociale e democratico, per una modernizzazione socialmente e ambientalmente orientata.
Sapremo essere all’altezza della sfida?
Siamo consapevoli che senza un’inversione di fondo nel nostro sistema sociale e produttivo il bilancio economico non tornerà mai in pareggio (né in Italia né in Europa)?
Siamo consapevoli che senza crescita e nuova occupazione non potremmo evitare che la spesa pubblica anche in debito ci torni indietro come un boomerang, perché un conto è la spesa pubblica che alimenta mercati nuovi, altro è la spesa pubblica che alimenta vecchie rendite e posizioni?
Siamo consapevoli che un conto è lo scambio “sostegno alle imprese-programmazione”, altro è quanto chiede Confindustria cioè soldi a pioggia e un taglio generalizzato delle tasse, scelte che aumenterebbero solo le attuali disparità, inefficienze e diseconomie?
Noi riteniamo di poter fare la differenza e che, molto, dipenderà da come saranno in campo le principali forze politiche, ma anche economiche e sociali. Dipende anche da noi se usciremo “da destra o da sinistra”.
Del resto sono già in campo le forze che, chiedendo di “tornare alla normalità e a come eravamo prima”, stanno proponendo di fatto un ritorno alle condizioni ambientali, sociali ed economiche che hanno generato “il mostro” della paura, della rabbia e della malattia fuori controllo.
Così come si vanno sempre più definendo gli schieramenti di coloro che, addirittura, vorrebbero approfittare della nuova fase per “rilanciare” (destre varie, Confindustria, grandi giornali): ancora più deregolamentazione, ancora più liberismo, ancora meno pubblico e meno democrazia economica.
Tocca a noi, CGIL in primis, proporre un altro campo da gioco: accettare fino in fondo la sfida di una “modernizzazione economica e sociale” che riduca il divario tra il nostro Paese e le economie più avanzate e ricostruisca una visione complessiva della società, proponendo un governo democratico dell’innovazione e “iniettando” dosi reali di socialità, efficienza, liberazione di risorse per rimettere in modo l’ascensore sociale, bloccato anche da troppi anni di pigrizie, subalternità, conservatorismi.
Dipenderà dalle alleanze che sapremo mettere in campo, non sono all’interno del mondo del lavoro con Cisl e Uil, ma verso le mille energie del sociale, dell’ambientalismo, del movimento cattolico, del civismo diffuso, delle rappresentanze d’interesse del mondo professionale, degli intellettuali-tecnici che ancora lavorano nelle istituzioni.
Il principale obiettivo di questa fase deve essere la difesa dei livelli occupazionali esistenti e soprattutto la creazione di nuova e stabile occupazione, anche per riassorbire le quote possibili (e probabili) di lavoratori espulsi da settori in crisi e da aziende di ogni dimensione che conosceranno forme, più o meno complesse, di ristrutturazione.
Non possiamo e non dobbiamo, cioè, auto condannarci a essere l’Emergency del Lavoro, l’ospedale da campo che cura e assiste le vittime delle guerre. Dobbiamo prevenirle le guerre e provare a imporre un modello che agisca sulle ragioni di fondo dello scontro e delle sue dinamiche.
Per troppo tempo la competitività del nostro Paese si è basata, infatti, sullo sfruttamento del solo fattore lavoro: bassi salari, scarsa sicurezza nei luoghi di lavoro, alti carichi, eserciti di riserva rappresentati da precari o lavoratori a nero, con forme odiose di intermediazione illecita (Caporalato), di distacco di manodopera, di dumping contrattuale.
L’attacco vero alla democrazia economica, e quindi politica, è passato da questo processo. Lo stesso indebolimento delle relazioni industriali, del ruolo della contrattazione collettiva, della capacità di organizzare larga parte degli strati popolari e dei ceti medi impoveriti, le forme di neo corporativizzazione, sono figlie di questi processi.
Dobbiamo allora qualificare e democratizzare lo Stato, qualificare e democratizzare le imprese, qualificare e democratizzare il lavoro.
Per fare ciò serve costruire un “eco sistema” economico, politico e legislativo, in grado di accogliere forme innovative di mercato, un ruolo diverso del Pubblico (Stato ed Enti locali) che permetta la rilocalizzazione di attività produttive, assumere la pianificazione ecologia come strumento principale per giungere a forme di “lavoro garantito” inteso come prodotto finale di un vero e proprio Piano del Lavoro Europeo verde e 4.0.
SE NON ADESSO, QUANDO?
Abbiamo poco tempo per invertire la rotta: le ingiustizie ambientali e sociali, il progresso tecnologico e scientifico, il futuro delle nuove manifatture digitali, hanno già fatto battere l’orologio della Storia. Dobbiamo avere noi l’ambizione di trasformare simultaneamente i nostri sistemi economici e politici e proporre un programma per dare uno sbocco alla crisi che rischia di esploderci tra le mani, già in autunno, quando il blocco dei licenziamenti e la massa enorme di risorse destinate agli ammortizzatori sociali verranno meno.
Dobbiamo incanalare noi le paure, la disperazione, le diverse forme di intolleranza e rabbia di chi, non potendo tornare al lavoro di prima o come prima, rischia di diventare “massa di manovra” per reazionari, liberisti, forme di neo autoritarismo.
La Vandea va prevenuta e per fare ciò dobbiamo accettare la sfida che ci lancia l’Europa e lo stesso Presidente del Consiglio Conte (per non parlare delle 100 idee di Colao) di un nuovo Patto Sociale che per noi non può che essere un patto tra la Repubblica, le forze produttive e un nuovo protagonismo delle istituzioni e dei cittadini, per la modernizzazione, l’occupazione, la giustizia sociale e ambientale.
Dobbiamo sfidare noi la Confindustria di Bonomi, la destra populista, le forze politiche e le istituzioni su come uscire dalla crisi, su come convivere con i rischi ambientali e sanitari che accompagneranno il nostro tempo, imponendo un graduale spostamento degli equilibri economici e sociali nel nostro Paese, assumendo il binomio uguaglianza-sviluppo.
Siamo noi che rivendichiamo un sistema che sia più efficiente e veloce, più trasparente, più giusto
perché in grado di affrontare i ritardi che nel tempo hanno favorito esclusivamente i più ricchi e i più “furbi”, allentando quella coesione sociale e quel senso civico, quella “sobrietà collettiva”, che sono la premessa per uno sviluppo più equilibrato, foriero di più opportunità e tutele per chi ha meno.
Per grandi linee:
Siamo noi che vogliamo affrontare, fino in fondo, il tema della mancata e per molti versi fragile riforma istituzionale: senza considerare il caos determinato dalla parziale soppressione delle Provincie (l’unico ente di area vasta nel tempo consolidatosi) la riforma del Titolo V ha dimostrato su materie strategiche (dalla sanità alle infrastrutture alle politiche energetiche) i propri limiti, figlia di una stagione in cui la subalternità alle spinte secessioniste, invece di ridurle, le ha solo confusamente alimentate. Oggi il ruolo non solo di coordinamento ma anche di intervento sostitutivo dello Stato deve essere rafforzato, come parte di una più generale attività di programmazione pubblica e di controllo, non solo per garantire realmente livelli minimi essenziali uguali in tutto il Paese, ma anche per quelle Regioni che, per inerzia o per errori, mettono a rischio i diritti fondamentali (dalla salute al diritto all’istruzione). Le positive esperienze che anche in alcuni territori si registrano (si pensi all’Emilia Romagna o alla Toscana) non possono essere usate come alibi da chi persegue finalità diverse dagli interessi generali o, peggio, sia inerte o incapace di fronte alle sfide a cui i cambiamenti ci stanno sottoponendo.
Siamo noi che vogliamo una profonda e reale riforma della pubblica amministrazione. Non un nuovo gioco dell’Oca, ma una profonda re-ingegnerizzazione delle nostre PP.AA. La Pubblica Amministrazione “amica dei cittadini e delle imprese” non può essere solo uno slogan: la capacità di gestire informazioni già in possesso del pubblico, la riduzione dei passaggi amministrativi, lo spostamento da una funzione di controllo negativo a una funzione collaborativa, con un di più sia di partecipazione (conferenze degli utenti, giurie cittadine, bilanci partecipati) sia di severe ed efficaci politiche di controllo ex post, possono essere l’occasione per quella re immissione di figure tecniche, di professionalità, di competenze che per troppo tempo sono state svilite. Svilite dal blocco del turn over, da riforme istituzionali parziali, da scarsi riconoscimenti meritocratici, da una contrattazione collettiva ripiegata su sé stessa.
La vicenda del Codice degli Appalti, pur nella sua parzialità, al riguardo è emblematica. Il Codice si può migliorare, molti passaggi autorizzativi ridurre, introdurre forme di tutela per il dirigente non è un tabù: ma i veri colli di bottiglia si chiamano stazioni appaltanti dequalificate, mancanze di piattaforme dati comuni ed interoperabili, perdita nel tempo di migliaia di figure tecniche nelle Regioni, Provincie, Comuni, Provveditorati alle Opere Pubbliche, mancanza di una visione industriale di Anas e Rfi.
Siamo noi che vogliamo una riforma della stessa macchina della giustizia civile, penale, contabile e amministrativa: spesso è una macchina lenta, ritondante, dove il forte vince e il debole subisce gli effetti (e i costi) del tempo, della mancanza di certezze, dell’esigibilità reale dei propri diritti. La stratificazione di norme, di riti, di livelli giurisdizionali sta impedendo a molte imprese la pianificazione di investimenti a medio termine, produce sfiducia nei cittadini, inerzia nelle istituzioni locali, alimenta un senso dell’anti Stato in larghe fasce della popolazione.
Solo una PP.AA. più efficace, un sistema giudiziario più rapido e certo possono rappresentare i veri antidoti alla corruzione ed anche alle possibili infiltrazioni di organizzazioni criminali e delle mafie.
Siamo noi che vogliamo uno Stato che torna ad investire direttamente e ad incentivare forme di collaborazione e di protagonismo del privato, a partire da due nuovi “mercati” quello del welfare delle persone e quello del welfare del territorio. Le politiche dello sviluppo sostenibile non implicano una “statalizzazione” dell’economia, ma ne richiedono un governo regolato. Il soggetto pubblico non può rinunciare a un suo ruolo a vantaggio di un’iniziativa solo privata, anzi serve a tutti, imprese in primis, uno Stato che indirizzi le dinamiche di alcuni mercati strategici, uno Stato che giochi su alcuni mercati direttamente, uno Stato che favorisca l’iniziativa privata, uno Stato che regoli tutti i mercati. Si tratta allora di pianificare due grandi linee di sviluppo: welfare delle persone e welfare del territorio, come coordinate entro cui subordinare le varie riforme di sistema, da quelle istituzionali a quelle fiscali.
Siamo noi che vogliamo una sanità più adeguata ai bisogni delle persone. Una sanità preventiva, omogenea e distribuita nei territori, fatta di servizi di assistenza primaria e non centrata esclusivamente sugli ospedali e le terapie dell'emergenza. Un’assistenza sanitaria diffusa nei quartieri che crei nuove competenze, posti di lavoro e servizi universali, senza affidare questa funzione di tutela al sottomercato delle badanti e delle assicurazioni individuali. La sanità non può essere esclusivamente pubblica ma il sistema universale deve essere garantito dallo Stato per indirizzi, appropriatezza, accessibilità e diffusione territoriale. Un Welfare delle persone che va oltre la salute, che si occupa di assistenza, povertà, emarginazione, inclusione, cittadinanza, prossimità, sicurezza, istruzione, cultura, cittadinanza attiva, non autosufficienza, ecc. Il Welfare “largo” può diventare un mercato enorme in cui agiscono e possono cooperare pubblico, privato e terzo settore: purché diffuso, regolato e di qualità.
Il secondo “nuovo” mercato da riavviare e sviluppare è il “Welfare del territorio”. Quello che interviene sulle città, sul patrimonio artistico e culturale, sui paesi, le campagne, i fiumi, le montagne, le spiagge, i mari, con la manutenzione, la prevenzione dei rischi, la riqualificazione, la ristrutturazione, il riuso, la rigenerazione, l’edilizia sociale, la diffusione dei servizi. Guardando ai bisogni ormai cronici del Paese, a partire da quelli di una popolazione che invecchia, si inurba nelle periferie degradate o vive in solitudine nei borghi e nelle aree interne senza servizi. Per fare ciò si deve superare una cultura urbanistica figlia dell’idea (giusta) di controllo del consumo di suolo e della crescita smisurata delle città, figlie di altre fasi storiche ed economiche. Serve una nuova visione della città che si rigenera, del territorio che si riprende ciò che è già costruito alimentando anche una domanda di nuovi materiali, di riciclo e riuso (materie seconde prime), inserendo l’ambiente fisico dentro idee più complesse di rinascita dei legami sociali, di comunità e di nuove attività produttive, come abbiamo provato a indicare, come Fillea Cgil anche con le comuni elaborazioni sviluppate con Legambiente e con l’Associazione Nuove Ri-Generazioni. Non è tema diverso dall’unica via, per i nostri settori, per tornare a crescere e non è tema diverso dal sostegno a nuove imprese, dalla qualificazione e riqualificazione di quelle esistenti nell’intera filiera delle costruzioni, dalla riqualificazione professionale, dal ricambio generazionale, dal rilancio di Scuole e CPT nel territorio.
Siamo noi che vogliamo le grandi infrastrutture fisiche e digitali. Questo tema non può più essere rinviato o considerato una delle tante “variabili”: il contesto è ormai maturo per una definitiva accelerazione di “Connettere l’Italia”, il piano pluriennale dedicato alle grandi opere di interconnessione del Paese all’Europa e al Mediterraneo, con il passaggio massivo di persone e merci dalla gomma al ferro e alle autostrade del mare (alta capacità, potenziamento dei porti). Negli ultimi mesi si stava cominciando ad assistere a una buona capacità di spesa, tornando a valorizzare la funzione industriale delle grandi stazioni appaltanti, provando a qualificare un mercato segnato dalla crisi delle principali aziende. Tutto ciò che ne rafforzerà professionalità, capacità di progettazione e finanziaria dedicata al “core business” di tornare a essere imprese di costruzioni va nella direzione giusta. Per questo è sbagliato dequalificare ulteriormente il settore, anzi norme più stringenti (dal Durc di Congruità al rispetto dei CCNL edili, dal rafforzamento delle norme di qualificazione tecnica all’introduzione del reato di omicidio sul lavoro e della “patente a punti”, dalla qualificazione dei sub appaltatori alle procedure di messa a gara) sono la precondizione perché le opere, grandi e piccole, di cui il Paese ha bisogno non si fermino poi per mancanza di giocatori all’altezza. La vocazione logistica dell’Italia è evidente, la sua natura di paese trasformatore può ricevere nuovo impulso da una forte infrastrutturazione del Sud e delle aree interne.
Discorso analogo, se non ancor più urgente, riguarda la totale infrastrutturazione digitale del Paese. Noi non saremo mai competitivi né nella capacità di banda trasmissiva né tanto meno nella produzione di servizi ad alto valore tecnologico o nello snellimento delle procedure organizzative, se non doteremo ogni italiano della banda ultra larga in fibra sino alle postazioni domestiche. La duplicazione dei soggetti che stanno diffondendo la banda ultra larga (soprattutto fissa, ma anche mobile) per il Paese non è più sostenibile. Open Fiber e Tim (e chiunque altro ci voglia stare) devono divenire un’unica realtà di scopo sotto il controllo e intervento del pubblico, asset strategico nazionale.
Siamo noi che vogliamo si torni ad investire sulla ricerca e sul sapere, su un rapporto stretto e sinergico tra scuola, formazione permanente e lavoro: ora è il momento per dar vita alla Fraunhofer italiana, ad un massiccio investimento in ricerca applicata, da mettere al servizio non solo dell’efficienza, ma della salute e del benessere dei lavoratori, con modelli produttivi ed organizzativi che generino maggior valore aggiunto, liberino tempo e riducano i carichi fisici, premino i momenti collaborativi ed il sapere diffuso. Dobbiamo valorizzare la collaborazione non solo tra università, centri di ricerca pubblici e privati, ma dobbiamo generare un “patrimonio di idee e brevetti” da mettere a disposizione del privato. E’ lo Stato Innovatore descritto dalla Mazzucato; è il ripensamento dell’intero sistema formativo a disposizione di un modello dove si lavora meno, si concilia di più tempo libero e tempo produttivo, si liberano “quote di lavoro”, si costruiscono reti di tutele e protezione lungo l’intero arco della vita, lavorativa e non solo, si valorizza la funzione civica dell’insegnamento, dei suoi luoghi, del loro essere parte della vita comunitaria.
Siamo noi che vogliamo la riforma del sistema creditizio e finanziario. Inutile negare che il superamento della divisione tra banche d’affari e banche commerciali, inaugurato da Clinton e recepito nel nostro sistema finanziario ha contribuito alla instabilità economica di questi anni: poco credito paziente e troppa speculazione a breve.
Troppe sono le difficoltà di accesso al credito industriale per le nostre aziende e troppa facilità vi è nel truffare i piccoli e medi risparmiatori. Come Fillea Cgil lo abbiamo già denunciato quando avanzammo la nostra proposta “per un vero sblocca cantieri”, evidenziando come fosse necessario (in quel caso ricorrendo a Cassa Depositi e Prestiti) un ritorno al credito industriale, alla partecipazione diretta in capitali di rischio a medio termine.
Occorre tornare, in forme nuove, a un controllo pubblico di parte del credito finanziario disponibile, anche con un ruolo diverso della Banca d’Italia e delle Fondazioni bancarie, favorendone stabilità e rendimenti compatibili all’obiettivo primario del credito: non fare soldi con soldi, carta con carta, ma sostenere l’economia reale, imprese in utile che creino occupazione. Da questo punto di vista un ruolo fondamentale potranno svolgerlo sia le nuove linee di debito pubblico su cui l’Europa dimostra oggi di cominciare a credere (l’obiettivo degli Euro bond per investimenti green deve ora essere perseguito più che mai) che gli investimenti in economia reale, socialmente ed ambientalmente orientati, dei Fondi Previdenziali Integrativi, cui finalità è proprio quella di garantire rendimenti di medio e lungo periodo ai lavoratori, al fine di integrarne la pensione pubblica. E’ arrivato il momento di mettere parte di questa disponibilità significativa al servizio del Paese e del Piano del Lavoro.
Siamo noi che vogliamo accompagnare e sostenere questi processi, democratizzando di più il mercato, le imprese, il lavoro. Occorre riappropriarci di alcune “postazioni strategiche”, a forte “proprietà sociale”: INPS, INAIL, Istituti per la salute e sicurezza, devono tornare ad essere strumenti al servizio dei lavoratori. Non si tratta solo di riformare la governance o di tornare nei comitati territoriali per le casse integrazioni: si tratta di riappropriarci come collettività dei lavoratori e pensionati, di piattaforme e risorse finalizzate a garantire la salute e la sicurezza dei cittadini.
Occorre mettere il sistema delle relazioni industriali al servizio di questa sfida, con un ruolo dei Contratti Collettivi Nazionali fondamentale (in un Paese in cui predomina la piccola impresa, dove mancano elementi di unità nazionale e di contrasto alla concorrenza sleale, dove il secondo livello è poco diffuso e la contrattazione territoriale un tabù). Fondamentale per attuare quella redistribuzione di produttività nel sistema (che va oltre l’azienda), per incentivare gli investimenti, per alimentare la domanda interna (salari, pensioni e fisco sono le leve principali per aumentare la capacità di spesa delle famiglie), per accompagnare modelli organizzativi, nuove professionalità, riconversioni in un rapporto virtuoso con nuove forme di partecipazione nelle aziende più strutturate e con una contrattazione aziendale che si faccia carico delle differenze, delle nuove multinazionali “tascabili”. Anche così si risponde all’attacco da “ancien regime” della Confindustria di Bonomi al rinnovo dei CCNL.
Dimostrandone la funzionalità ad un modello non solo più giusto ma più efficiente.
Occorre ripensare l’intera struttura degli incentivi al welfare aziendale che, come una droga, ha reso conveniente lo svuotamento del welfare pubblico e saldato, in un rapporto non sempre positivo, interessi datoriali a pagare meno tasse, riconoscere meno salario e paure ed ansie dei lavoratori (per cui si vanno rendendo, alla fine, i forti più forti).
Occorre ricostruire spazi collettivi che rendano trasparenti, efficaci, sostenibili queste trasformazioni anche fuori dalle aziende sindacalizzate.
Per questo è arrivato il momento di inserire nel nuovo Patto Sociale, l’attuazione degli articoli 39 e 46 della Costituzione (rappresentanza e partecipazione), dando così per questa via attuazione anche all’art. 36. Il sapere, le conoscenze, le possibilità di incidere sulle strategie industriali apportando il punto di vista del lavoro, dell’esperienza rappresentano la sfida per tutti noi, in un quadro di regole che facilitino il governo democratico dell’innovazione (il tema non è quanta innovazione tecnologica, quanta digitalizzazione vi è in azienda ma gestita da chi, per quali scopi ultimi, con quali possibilità di controllo).
Per questo occorre anche una legislazione che incentivi forme nuove di mutualità tra lavoratori (sul modello delle casse edili, che rompono la filosofia della tutela assicurativa prettamente individuale e che presidiano alla “legalità e trasparenza” dei rapporti economici, attraverso il Durc e non solo), che verifichino trasparenza e democraticità, che diano la capacità alle organizzazioni dei lavoratori di tornare a gestire in forma nuova collocamento e formazione professionale, allargando le tutele sul mercato del lavoro e non solo nelle aziende.
E’ arrivato il momento per una riforma degli ammortizzatori sociali funzionale al re impiego delle maestranze, alla tutela temporanea, non al loro impoverimento secondo un’idea caritatevole (e di destra) dell’assistenza.
E’ ora il tempo di un nuovo Statuto che, con poche norme, garantisca tutele uguali per tutti, riducendo le tipologie contrattuali, permettendo loro la concreta possibilità di organizzarsi in sindacato, decidendo – anche noi – una volta per tutte quella semplificazione del numero dei CCNL non più rinviabile.
Insomma occorre ora rafforzare la partecipazione e la democrazia economica tanto nei luoghi di lavoro che sul territorio, riportando a un’unità ciò che crisi e trasformazioni hanno gettano nella solitudine e nella paura.
Dentro queste coordinate un nuovo Patto Sociale, in Italia oggi, in Europa domani, è prima di tutto un nostro interesse!