Sindacato Nuovo, Maggio 2024. L'editoriale di Alessandro Genovesi.
“Il lavoro non è una merce né un mero strumento della catena produttiva”. Queste parole di Papa Francesco sono le prime venute in mente dopo le drammatiche morti di Firenze e di Bologna, in una continuità mediatica ma anche tanto (troppo) concreta con quanto avvenuto a Brandizzo e con quanto, tutti i giorni, capita in un cantiere o in una fabbrica. Morti bianche – le definiscono impropriamente – che sono veri e propri omicidi sul lavoro.
E il cantiere (per non dire del vasto mondo delle manutenzioni) diviene così specchio di due mondi possibili, tra loro diversi e alternativi: il mondo della qualità, degli investimenti, della sostenibilità ambientale e sociale delle nostre imprese e città, e il mondo dello sfruttamento, delle aziende “sciacallo”, del razzismo e dell’illegalità. Due mondi così diversi, due modelli di azienda, di organizzazione del lavoro, di valorizzazione delle professioni (oltre che dei diritti) che magari convivono a poche decine di metri l’uno con l’altro.
Ma è proprio un modello di sviluppo e di impresa quello che noi contestiamo alla radice. Quello che ha assunto il profitto come variabile indipendente. Subappalti infiniti, lavorazioni fatte in contemporanea e non in sequenza, cottimisti che tra loro non si conoscono, decine di ditte individuali, zero controlli da parte del committente.
È la svalutazione del lavoro come leva di competizione per tenere bassi i prezzi e massimizzare i guadagni. Non una regola, ma la regola negli appalti privati. Non a caso, se dovessimo trovare una data per cui questa “deriva” diviene “modello”, normativamente riconosciuto e politicamente condiviso, dobbiamo tornare al 2003 con il Dlgs. 276/03 quando venne abrogata la legge 1369 del 1960 e in particolare quell’articolo “aureo” (l’articolo 3) per cui, ai lavoratori in appalto, il committente avrebbe dovuto garantire lo stesso trattamento economico e normativo.
È quell’abrogazione la sintesi perfetta della visione espressa dal Libro Bianco di Maroni per un’Italia che - entrata nell’Euro e non potendo più scommettere sulla svalutazione della lira - non sceglie la via, più complessa e sicuramente più costosa per le imprese, della società della conoscenza. Non si affida alle indicazioni del Libro Bianco di Delors, per cui solo con più investimenti in innovazione (di prodotto e processo) per aumentare la produttività e il valore aggiunto, avremmo potuto mantenere alti gli standard produttivi e sociali del paese… ma sceglie – viene spinta – sulla via della svalutazione del lavoro.
Proprio la frantumazione della stabilità di impresa (appalti ed esternalizzazioni) e della stabilità occupazionale (co.co.pro, lavoro a termine, a chiamata, somministrazione, ecc.) sono, insieme alla sostituzione tecnologica non contrattata, i terreni praticati dal padronato per indebolire la forza dei lavoratori.
E questa visione diviene egemonica, fino a contaminare e determinare la stessa riorganizzazione di intere filiere del lavoro e dei servizi pubblici. Firenze e Palermo, la giungla degli appalti privati, sono quindi il frutto avvelenato ma non imprevisto di questa onda lunga.
Non a caso salutammo come una grande vittoria, il confronto – in vista del decreto per il PNRR – che ci portò ad inserire nel decreto 77/2021 e poi nella legge delega sulla riforma del codice degli Appalti (legge 78/2022) il principio di parità di trattamento economico e normativo, nonché applicazione del medesimo CCNL tra lavoratori in appalto e subappalto.
Era la riconquista, per quanto parziale e per quanto limitata agli appalti pubblici, della famosa norma “d’oro” della legge 1369/60. A cui si aggiunse poi – nel confronto con il Parlamento l’anno successivo - l’inserimento, nella legge delega sugli appalti pubblici, del vincolo per cui i costi della sicurezza e i costi della manodopera non possono essere oggetto di ribassi né in fase di offerta né lungo la catena di subappalti.
Sono in sostanza quelle norme (articolo 41 e articolo 119 dell’attuale codice degli appalti, il Dlgs. 36/2023) che chiediamo oggi – dopo l’ennesima morte – di estendere a tutti gli appalti privati.
Cioè l’esatto contrario di quanto fatto dal Governo Meloni che ha provato allora a ridurre la portata concreta delle nostre conquiste (compreso il Durc di Congruità) togliendo il divieto di subappalto a cascata previsto dal vecchio Codice.
Ed ecco perché abbiamo salutato come una prima vittoria, certo non esaustiva, certo non definitiva, la modifica al decreto 19/2024 ottenuta proprio per le pressioni e le mobilitazioni messe in campo da Cgil e Uil, con un ruolo decisivo della Fillea Cgil ai tavoli di confronto con il Governo. Il 10 Aprile infatti, proprio il giorno prima dello sciopero di 8 ore indetto da FenealUil e Fillea Cgil il Governo ha accolto la proposta di modificare il Dlgs. 276 del 2003 stabilendo che “al personale impiegato nell’appalto di opere o servizi e nel subappalto spetta un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale stipulato delle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona strettamente connessi con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto”. Viene in sostanza modificata l’iniziale proposta del Governo che si riferiva solo al trattamento retributivo (ma sono le norme specifiche, la formazione, gli orari di lavoro, le norme sull’organizzazione del lavoro, ecc. che fanno la sicurezza!) e ora viene allargato al “trattamento normativo”; sparisce il riferimento ai CCNL più diffusi (in prospettiva una legalizzazione possibile dei contratti peggiori, che costando di meno, si diffondono “prima”, indipendentemente da chi li firma) per tornare al “comparativamente più rappresentativi” e soprattutto affermando che è l’attività che “strettamente” definisce i CCNL e non l’impresa che se li può scegliere come in un “menu a la carte”. Insomma una prima importante vittoria che di fatto, anche se parzialmente, porta negli appalti privati alcune tutele ottenute nel Codice degli Appalti pubblici.
Poi certo rimangono alcune richieste fondamentali non accolte e per questo la mobilitazione continua, le vertenze continuano, la contrattazione collettiva deve avere la lotta al modello speculativo delle imprese, ancora di più al proprio centro.
Dobbiamo ottenere che sparisca il massimo ribasso, negli appalti pubblici e privati (e in questa direzione è un buon segnale quanto scritto nel rapporto per un “nuovo mercato unico europeo” dall’on. Enrico Letta, si veda l’articolo dedicato; nel rapporto si parla esplicitamente di redigere nuove direttive europee che eliminino il ricorso al “massimo ribasso”).
Dobbiamo riconquistare una maggiore responsabilità del committente anche con riferimento ai danni di salute subiti dai lavoratori in appalto e subappalto (e su questo è dedicato uno dei 4 referendum promosso dalla Cgil).
Dobbiamo riconquistare il divieto di subappalto a cascata, a partire dagli appalti pubblici.
Ed ecco perché la sottoscrizione di accordi con le grandi stazioni appaltanti pubbliche che vietino proprio il subappalto a cascata diviene un’opzione di lavoro strategica: a partire dall’importante intesa sottoscritta a Roma sui lavori del Giubileo, seguita poi da un accordo simile con il Comune di Bologna e nella ricostruzione di Ischia (sottoscritto anche con il Commissario Legnini e con il Prefetto di Napoli) e ci auguriamo presto con altre decine di stazioni appaltanti. Abbiamo dimostrato che si possono aggredire gli elementi che rendono possibile una competizione solo sul “prezzo”.
Il primo modo per tutelare le imprese del settore serie, oneste e che investono, non è premiare chi rispetta le leggi e la salute e sicurezza, è impedire che chi non lo fa possa operare! È favorire la crescita dimensionale dell’impresa contrastando l’eccessiva frantumazione dei cicli produttivi. Il Governo Meloni è talmente consapevole della portata delle nostre richieste che non a caso sceglie un altro terreno di confronto, snaturando anche proposte storiche come la Patente a Punti.
Per tutte queste ragioni abbiamo scioperato il giorno 11 aprile, 8 ore, tanto in edilizia che nei settori del legno, del lapideo, del cemento e dei laterizi. E per questo la mobilitazione, l’azione contrattuale, vertenziale, politica (cioè tutti gli strumenti che abbiamo) devono continuare.
Le nostre vertenze non sono slegate rispetto alla più generale strategia della Cgil, non sono un tema diverso rispetto all’esigenza di allargare le alleanze sociali anche con quel mondo dell’impresa che – rispettando leggi e contratti, investendo in transizione ambientale e tecnologica – subisce una concorrenza sleale da determinati modelli aziendali.
E allora la mobilitazione della Cgil deve vedere un di più di protagonismo dei nostri militanti, delegati, funzionari. Portando ogni struttura della Cgil il proprio contributo, le proprie specificità, i propri punti di avanzamento contrattuale e vertenziale, che ci auguriamo la Confederazione riconosca e valorizzi.
Sapendo agire tutte le leve che abbiamo individuato come Cgil: contrattazione collettiva nazionale a partire dal salario, vertenze legali pilota, iniziative di portata generale su Fisco e Sanità, legge di iniziativa popolare, referendum abrogativi.
Il tutto con la consapevolezza che la questione premierato e autonomia differenziata – per il combinato disposto sugli equilibri democratici e sulla stessa coesione sociale e tutela dei nostri rappresentati – sarà probabilmente la battaglia più importante.
Ovviamente questo richiederà ancora più impegno: insieme al rinnovo dei contratti di secondo livello territoriale, insieme al rinnovo dei CCNL edili, insieme al costante presidio del tesseramento e dei rinnovi degli accordi aziendali, dovremmo dare il nostro contributo alla riuscita dei diversi appuntamenti, anche di piazza della nostra Confederazione.
E dobbiamo mettere a disposizione il nostro sistema di relazioni industriali e le nostre contrattazioni collettive avanzate.
Penso da ultimo al rinnovo del CCNL Legno Artigiano. Era l’unico di tutti i nostri CCNL dove (non avendo avuto i risultati successivi all’allineamento conrattuale del 2018 e poi ribadito nel 2022 nel settore edile) non avendo la “doppia pista” come nel Legno Confindustria e Legno Confapi, non avendo la forza che abbiamo nei cementieri e nei lapidei, era l’unico CCNL dove il salario orario era inferiore ai 9 euro. Con il recente rinnovo, 180 euro di aumento sui minimi, 130 euro di una tantum e 5 euro in più per ogni scatto biennale, anche in questo CCNL abbiamo superato i 9 euro. Era questo uno dei mandati di fatto datoci tutti insieme come Cgil. Lo abbiamo raggiunto e questo speriamo aiuti la battaglia più generale di tutti.
Ovviamente una stagione di contrattazione collettiva efficace è quella che sarà in grado di aggredire di più i due nodi di fondo del nostro modello produttivo: più investimenti e più formazione per avere più valore aggiunto, più qualità e quindi salari più alti. Salari più alti sono possibili infatti, nella differenza di contesti produttivi, filiere ecc. solo se sapremo qualificare di più il nostro sistema produttivo, manifatturiero e dei servizi.
Da questo punto di vista il Documento sulle politiche industriali redatto dalla Cgil è un’ottima base per avviare vertenze specifiche. Esso è coerente con la nostra strategia delineata nel Manifesto di giugno 2023 su “Rigeneriamo le Città, Rigeneriamo il Lavoro, Rigeneriamo la Democrazia” e con le relative azioni, a partire dalla proposta elaborata insieme a Nens, non a caso richiamata in modo esplicito nel documento della Cgil. È coerente per le proposte di merito a partire da come, utilizzando anche la direttiva Case Green, aumentiamo il valore aggiunto della filiera delle costruzioni. È coerente con l’assunzione della transizione ambientale e del governo delle innovazioni tecnologiche per collocarci nella parte alta della divisione internazionale del lavoro.
E probabilmente dovremmo anche allargare proposte e riflessioni almeno ad una dimensione europea. Anche di questo abbiamo parlato il 26 Febbraio scorso nell’incontro svoltosi a Roma pressa la Fillea Cgil nazionale, con il Segretario della Federazione Europea degli edili e con l’on. Letta, chiamato a redigere un rapporto sul nuovo mercato unico dell’Unione. E non saranno indifferenti i risultati che usciranno dalle urne a giugno per il prossimo Parlamento Europeo!
La vicenda della direttiva “case green” è – da questo punto di vista - strategica.
Se traduciamo infatti la direttiva in numeri, in Italia stiamo parlando di almeno 500mila edifici pubblici e circa 5 milioni di edifici privati su cui si dovrà intervenire per migliorarne le prestazioni energetiche. Spesso case di periferia dove vivono le persone con i redditi più bassi e che hanno le bollette più care (per capirci passare da classe F a D vuol dire risparmiare 1200 euro l’anno). Senza contare le nuove costruzioni. Non a caso già il 1° Aprile 2023 decidemmo 5 piazze di periferia (Torino, Roma, Napoli, Palermo, Cagliari) per tenere insieme qualità del lavoro e qualità sociale della produzione edile.
Insomma anche “tralasciando” il fatto che il 36% di tutta la Co2 prodotta e il 40% degli sprechi energetici sono causati dagli edifici, la destra avrebbe voluto rinunciare ad uno dei driver di sviluppo più importanti nel mondo, quello dell’efficienza energetica e della rigenerazione urbana. In un Paese dove la filiera costruzioni e le attività immobiliari rappresentano il 20% del Pil e danno lavoro ad oltre 2 milioni di persone. Ora però che la Direttiva è stata approvata e il Governo dovrà entro fine 2025 predisporre il primo Piano Nazionale, occorre farci i conti e come Paese abbiamo una grande occasione. Dobbiamo attrezzarci subito in termini industriali, normativi e finanziari, per raggiungere gli obiettivi, farne una leva per più uguaglianza sociale e anche per avere lavoratori professionalizzati, imprese qualificate e produttori nazionali di materiali e tecnologie. Per questo chiediamo che il Governo apra subito un tavolo con le forze sociali, gli ambientalisti, i professionisti, gli enti locali, l’ENEA, le grandi aziende energetiche e le banche. E chiediamo che la Cgil sia al nostro fianco e sostenga tale richiesta.
Il 2025 è infatti domani e il 2030 è dopodomani. Dobbiamo procedere immediatamente ad un riordino degli strumenti finanziari e dei vari bonus, agendo tutte le leve a disposizione: intervento pubblico diretto (o delle imprese a partecipazione pubblica) per case popolari, scuole, ospedali; trasferimenti economici diretti fino al 100% per i condomini di periferia e i redditi più bassi, mutui verdi e contratti di cessione del risparmio energetico, concentrando tutte le risorse, nazionali e comunitarie, esclusivamente sulle prime case con le classi energetiche più basse e a favore dei redditi medio-bassi.
Dobbiamo ora pensare a come rafforzare le filiere industriali che producono i vari sistemi tecnologi per l’edilizia, dai panelli solari alle nuove caldaie, dai nuovi materiali alla sensoristica, dalle nuove resine alle leghe metalliche. Dobbiamo cioè imparare dal passato, avendo obiettivi di medio termine da qui al 2030 e poi 2033 e 2035, e dobbiamo evitare speculazioni e rincari fuori controllo, di essere solo acquirenti di tecnologie prodotte altrove e di ridurci all’ultimo momento, con quella fretta e caos che poi nei cantieri producono infortuni, sfruttamento, irregolarità.
Accanto a queste leve e azioni contrattuali dobbiamo riuscire a far capire al maggior numero possibile di lavoratori che questa stagione di vertenzialità mirata è dentro una cornice chiara e strategica: la difesa della Costituzione, formale e sostanziale. Non tanto o solo quell’articolo 1 che tutti citiamo ma quell’articolo 3 e più in generale quegli articoli “di programma” che sono la vera originalità del nostro assetto fondamentale. Che fanno della nostra Costituzione un modello più avanzato rispetto ad altre costituzioni (americana e francese per esempio) perché prova a tenere insieme la libertà con l’uguaglianza, dando sostanza ad una democrazia che è (o dovrebbe essere) sostanziale e non solo formale.