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Su Tav e grandi opere basta pregiudizi, Serve un “Patto per il Paese” per tornare a crescere: la riflessione di Alessandro Genovesi sul quotidiano online Striscis Rossa                                                           

 Dobbiamo tornare a crescere, per difendere l’occupazione che c’è e soprattutto per crearne di nuova. Per farlo dobbiamo affrontare i veri “colli di bottiglia” che hanno reso il nostro sistema produttivo più fragile e meno competitivo di altri (e magari su questo, si, fare una bella discussione in Europa sui vincoli di bilancio). Tra i 4 principali colli di bottiglia del Paese tutti i principali economisti evidenziano non il costo del lavoro, non la presenza o meno del sindacato, ma gli alti costi energetici, un sistema logistico arretrato che ancora trasporta il 90% delle merci su gomma, una burocrazia eccessiva, la scarsa propensione ad investire in ricerca ed innovazione.

Quando si parla delle grandi opere (a partire dalle 25 individuate dal programma pluriennale,  già finanziato con oltre 100 miliardi, noto come Connettere l’Italia), siano esse la Tav, il Terzo Valico, il Brennero, la Napoli-Bari, la 106, la Siracusa-Gela, la Sassari-Olbia, ecc.(opere  a stadi diversi di realizzazione, con quote fino al 50% dei lavori appaltati) si sta parlando di questo. Non solo di dare lavoro a circa 90mila operai e tecnici dell’edilizia, ai produttori di materiali e servizi connessi, ma di aggredire uno dei principali ostacoli alla produttività ed efficienza del nostro Paese, delle nostre imprese, di molte delle nostre aree interne (a partire da quelle meridionali).

Principale alternativa (quella di scommettere sulla qualità e sull’efficienza di sistema) alla mera competizione sul costo del lavoro (cioè o aumentiamo il valore delle nostre merci e dei nostri servizi o siamo intrappolati nel competere solo su bassi salari e precarietà). La cura del Ferro (cioè portare merci più con i treni che con i tir), l’intermodalità (la connessione tra autostrade del mare, cioè i porti, cioè Genova, Napoli, Gioia Tauro, Bari, con strade urbane di raccordo, con ferrovie ad alta capacità), l’intersezione con le grandi dorsali europee (i famosi corridoi Est-Ovest, Sud-Nord) sono parte di una strategia per il rilancio complessivo del Paese, della sua sostenibilità anche ambientale, della decongestione dei nodi urbani, della qualità della vita dei cittadini. Non è solo questione (pur importante) di tenere aperti o aprire nuovi cantieri.

E le grandi e medie opere non sono in alternativa, anzi, completano una strategia pluridimensionale dove ad esse si affiancano la manutenzione ordinaria e straordinaria delle attuali reti ferroviarie e viarie (molte con più di 40 anni di età e quindi necessitanti di un intervento specifico sui viadotti), la cura del territorio (sempre più fragile ed oggi ancor più esposto ai cambiamenti climatici e meteorologici), la valorizzazione delle città come motore di sviluppo attraverso rigenerazione e recupero (e quindi riconversione non solo del manufatto edile, ma anche delle reti sociali che intorno al recupero di aree e spazi si ricostruiscono, come ci insegnano le esperienze più avanzate, da Parigi a Barcellona, da Lisbona a Milano e Torino).

Le grandi opere sono per tanto un tassello fondamentale di una specifica idea del ruolo e del posizionamento del Paese nei flussi commerciali e produttivi mondiali, della naturale vocazione ad essere come Italia il grande terminal del Mediterraneo (ed intorno a questa funzione ripensare il ruolo del Mezzogiorno) e segnano la nostra propensione ad essere un sistema aperto o un sistema chiuso, verso l’Europa e verso il Mondo. Queste “visioni” spiegano anche, al di là dei tecnicismi, la portata concreta ma anche simbolica della discussione intorno alla Torino-Lione e più in generale intorno alla volontà o meno di portare avanti una idea di modernizzazione del paese che non ricada in visioni ideologiche quando si parla di grandi opere e, più in generale, quando qualcuno (come per esempio il sindacato, ma anche la Confindustria) sottolineano l’importanza di una politica anticiclica che assuma il settore delle costruzioni (certo in termini nuovi, con meno consumo ed invasività e più resilienza) come motore.

Per questo anche la discussione sul recente documento del Mit, sull’analisi costi benefici presentata dagli esperti nominati da Toninelli va letta andando oltre le singole cifre. E mi spiego meglio: il documento può certo definirsi tecnicamente corretto, ma evidentemente è piegato da questo approccio che assume prima una tesi e poi si sforza di dimostrarla. Forte è infatti la sensazione che si è partiti da una tesi quasi aprioristica (l’inutilità dell’opera) per poi costruire intorno a ciò un architettura analitica. Si noti  come vengano svilite, per esempio, le potenzialità di acceleratore dei flussi di un’infrastruttura che se ci fosse potrebbe contribuire anche a cambiare orientamenti e culture logistiche (tradotto, si può calcolare la potenzialità logistica di un’opera quantificando gli attuali flussi di merci, oppure aggiungervi un moltiplicatore connesso al fatto che altri potrebbero essere incentivati a farvi passare merci che oggi non vi passano).

O ancora si calcola l’impatto ambientale riducendone la portata a fronte di una possibilità (ma non certezza) che se si rinnovasse il parco motori di un milione di tir questi sicuramente inquinerebbero di meno degli attuali (da qui la sterilizzazione dei 3 milioni di tonnellate di Co2 in meno che il passaggio su ferro porterebbe nel transito transfrontaliero con la Francia). O ancora si enfatizza il valore tariffario autostradale attuale per giungere ad un quasi azzeramento degli introiti fiscali (persi e guadagnati) qualora milioni tonnellate merci passassero su ferro (e quindi non più per i caselli delle tanto vituperate concessionarie autostradali). O ancora si possono contabilizzare in punti efficienza l’ammodernamento di una linea storica che oggi forse potrebbe sopportare un incremento di passeggeri ma non certo di merci, senza però contabilizzare (a quel punto certo) il non sviluppo di un area logistica integrata che tra Piemonte e Lombardia potrebbe, da Genova- via terzo Valico- riconnettersi al corridoio tra Europa dell’Est e dell’Ovest (di cui la Torino-Lione è parte integrante) ed essere la vera alternativa a Tangeri e Rotterdam. E  si potrebbe continuare così anche su altri aspetti della recente Analisi.

Tutto per nascondere –  sotto la cortina fumogena della nona “analisi costi-benefici”, scientificamente valida come le altre, perché costruita con un modello analitico inverso – quella che però è e rimane (e su questo ha ragione il Presidente Chiamparino) una scelta di politica economica che questo Governo deve fare. Assumendosene poi tutte le proprie responsabilità, oltre la campagna elettorale permanente a cui ci stanno abituando. Una scelta di politica economica certo resa più complicata dai saldi limitati di finanza pubblica, ma che o è una scelta anche di politica industriale, di messaggio alla nazione o non è. Oggi la Tav vuol dire questo.

Come Fillea e come CGIL da tempo chiediamo, dentro quel generale Piano del Lavoro che non ha mai messo in alternativa grandi opere e cura del territorio, che la Tav e le altre opere di Connettere l’Italia si facciano. Anzi poniamo da anni il tema di come accelerare la spesa per gli investimenti già fatti (perché oggi il tema è anche spendere le risorse che vi sono) e come farne degli altri, magari guardando al riequilibrio con il nostro sud (oggi, senza autonomia differenziata e senza riforma fiscale flat, nel nord si concentrano  già il 66% degli investimenti pubblici e il 79% di quelli privati).

Anche per questo il prossimo 15 marzo, insieme agli amici della Filca Cisl e della Feneal Uil, abbiamo indetto lo sciopero generale di tutti i settori delle costruzioni (edilizia, ma anche cemento, lapidei, laterizi, legno, cioè di tutti i produttori dei materiali che, se non riparte l’edilizia, non ripartono neanch’essi) con una grande manifestazione a Roma. Perché serve una politica di grandi e piccole opere, serve una politica di sistema ed una cabina di regia unica per fare quegli interventi di manutenzione, messa in sicurezza e trasformazione delle città, di cui abbiamo bisogno. Servono come il pane, per dare occupazione agli oltre 600 mila addetti dei nostri settori che hanno perso un posto di lavoro in questi anni di crisi; per dare una prospettiva alle nostre grandi aziende specializzate (da Condotte ad Astaldi da Cmc a GLF a Tecnis) e all’indotto fatto di piccole e medie imprese; per non disperdere competenze e professionalità, ma soprattutto perché servono al Paese, alla sua competitività e tenuta sociale.

Su questo vedo anche i termini per un nuovo “Patto tra Produttori” che esca dalla fabbrica, che esca dall’illusione che la produttività sia solo una questione di relazioni industriali (anche buone) o di modellistica contrattuale, per assumere il terreno di una battaglia comune per gli investimenti, pubblici e privati, a forte impatto produttivo. Contro ogni forma di rendita e speculazione finanziaria da un lato (su cui la nostra classe imprenditoriale ha forti responsabilità) e contro ogni forma di pseudo assistenzialismo che rischia di relegare ad ulteriore marginalità il nostro Sud ed i nostri giovani.

E su questo terreno – aggiungo – capire anche fino a che punto i ceti produttivi del Nord sono disposti ad inseguire quello strano coacervo che vede contraddizioni anche nel campo rappresentato dalla Lega di Salvini. Al Presidente Boccia direi così: “dal patto per la fabbrica” passiamo al “patto per il Paese”. Dalla produttività come innovazione nel lavoro passiamo alla produttività come tema di una Paese che torna a scommettere sul futuro delle sue grandi infrastrutture, quelle materiali e quelle immateriali. E su questo mobilitiamo le energie migliori, sociali, politiche, intellettuali. Questa sì che sarebbe una discussione interessante, magari da ospitare proprio su questo giornale on line…

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