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 24.02.13 "Peppe Burgarella era un nostro compagno. Credeva nel sindacato. Da sempre iscritto alla “gigielle” come la chiamava lui, era delegato sindacale e componente storico il gruppo dirigente della Fillea. La Cgil era la sua casa, il suo principale punto di riferimento e impegno  politico." Così esordisce Franco Colomba, segretario generale della Fillea Cgil di Trapani, in una lettera pubblicata da Rassegna Sindacale per ricordare Peppe Burgarella, iscritto e dirigente degli edili Cgil, tragicamente scomparso lo scorso 2 febbraio..
 UN NOSTRO COMPAGNO
di Franco Colomba, segretario generale Fillea Cgil Trapani
Peppe Burgarella era un nostro compagno. Credeva nel sindacato. Da sempre iscritto alla “gigielle” come la chiamava lui, era delegato sindacale e componente storico il gruppo dirigente della Fillea. La Cgil era la sua casa, il suo principale punto di riferimento e impegno  politico.
La sua era una partecipazione attiva, spesso critica nei confronti dei gruppi dirigenti per i risultati che non sempre si ottenevano, ma generosa nell'impegno  e pronta allo slancio  per difendere il sindacato e il suo ruolo  dagli attacchi esterni.
Era una persona che si realizzava nel  lavoro, con un carattere fortemente mutevole, allegro oppure intristito a secondo che lavorasse o no.
Sembra abbia lasciato scritto che cosi, con questo suo gesto estremo e disperato, oltre alla sua esistenza interrompeva  il suo stato di disoccupazione che lo opprimeva, protestando a suo modo, da protagonista quale si sentiva di essere, contro l’insensibilità delle istituzioni e di una società ingiusta che, costituita e fondata sul lavoro, lo nega ai suoi cittadini, e così li emargina, toglie loro la dignità di persone, li porta alla disperazione  e, come nel caso di  Peppe, a  darsi la morte.
Raccontava ai compagni  più giovani che aveva iniziato a lavorare presto, a 14 anni faticava nelle cave di marmo per aiutare la famiglia, la mamma era vedova e da sola doveva crescere i tre figlioli. Ma in cava si sentiva sfruttato e non lo pagavano il giusto – raccontava – e allora aveva detto alla mamma che voleva smettere, ma lei gli chiedeva di lasciar perdere, di continuare, quei soldini erano utili e lui doveva avere pazienza e sopportare. Di Vittorio -  a quei tempi - non lo conosceva ancora ma Peppe, oltre al nome, aveva il suo stesso meraviglioso vizio, quello di non togliersi mai il cappello davanti al padrone, di non abbassare mai la testa. Quella era una ingiustizia, punto. E se ne scappò a Torino, per cercare un lavoro che non lo umiliasse. A distanza di più di 45 anni, Peppe ha detto un altro no, stavolta all’umiliazione del  non lavoro. Un no a vedere la sua dignità offesa da quella “condizione di disoccupazione”. Un no senza scampo.  
Un no a quello che vedeva. La sua Trapani e la sua Sicilia,  devastate da una crisi che ha chiuso i lucchetti di tutti i  cantieri, anche di quelli pronti per partire, ma le casse sono vuote. La sua Trapani e la sua edilizia, che in cinque anni ha lasciato a casa oltre a lui altri 5.072 operai,  ridotto la massa salari di 35 milioni di euro e di 4,7milioni le ore lavorate. La sua Trapani ed il suo sindacato, che è tutti i giorni sulle barricate della difesa dei posti di lavoro e dei diritti, della lotta per la sicurezza e contro l’illegalità, ma il cui grido di allarme continua ad essere inascoltato da istituzioni sorde e che si interroga su quella domanda che Peppe rivolgeva nell’ultimo direttivo “che cosa dobbiamo fare ancora per far capire alle istituzioni il dramma di noi disoccupati?”.  La sua Trapani, la sua terra ed i suoi lavoratori, che piantano le tende davanti al Municipio di Alcamo e da lì promettono di non andar via senza una risposta, quella tenda che oggi diventa l’emblema della lotta per il lavoro in questo territorio. Quella Trapani e quell’Italia che Peppe ha costruito,  ma di cui sente di non fare più parte, perchè l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, e lui il lavoro non ce l’aveva più. Quella Trapani e quella vita che non è più possibile gestire, perché oggi in edilizia a 60 anni cosa fai? Sei troppo giovane per la pensione, troppo vecchio per lavorare.
Quel no forse era tutto questo, e noi non lo abbiamo compreso fino in fondo. Non lo abbiamo saputo aiutare. Non abbiamo saputo fermare quel pensiero che forse da tempo covava dentro e di cui non ci ha reso partecipi. La sua tragica fine ci ha lasciato e ci lascerà un segno per sempre.
Ciononostante, abbiamo il dovere di proseguire le nostre battaglie, le sue battaglie. Per il lavoro, per la difesa della dignità di chi perde il lavoro e di chi, pur lavorando, si vede negati i diritti o non può rivendicarli.
Abbiamo il dovere di lottare per i valori di giustizia sociale e di libertà a cui Peppe ha ispirato tutta la sua vita ed il suo impegno nel sindacato.  Ed abbiamo il dovere di domandarci sempre, in ogni situazione in cui siamo lì a difendere i diritti dei lavoratori, se stiamo facendo e se abbiamo fatto tutto il possibile. Affinchè  il suo gesto non venga offuscato e dimenticato. Perché Peppe ci ha insegnato molto, in vita ed anche con la sua morte.

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