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14.03.14 Si è concluso il il Congresso territoriale della Fillea Campania. Di seguito la relazione del segretario uscente Giovanni Sannino, riconfermato alla guida della struttura dal nuovo direttivo eletto al termine del congresso.
Care Compagne e cari Compagni, delegate e delegati, graditi ospiti, oggi celebriamo il quarto congresso regionale, a cui è restituito il valore di istanza di primo livello. Lo svolgiamo in un momento particolarmente difficile del nostro Paese, in cui la mancanza di lavoro rappresenta il dramma sociale di milioni di uomini e donne. Il Congresso della Fillea Campania chiude la fase delle assemblee di base, quelli che ci hanno visto sui cantieri, negli uffici, nelle fabbriche, nelle leghe, nelle zone e nei territori della regione, dal Casertano, al Salernitano, dalle zone di Benevento e Avellino, alla popolosa area metropolitana di Napoli Il prossimo 2 e 3 aprile a Roma, si terrà il Congresso della Fillea Nazionale, e a maggio nei giorni 6,7,8 il Congresso della CGIL. In Campania ci sono state 191 assemblee che hanno coinvolto 14.835 lavoratrici e lavoratori di tutti i settori della filiera delle costruzioni pari al 69.7% del totale iscritti al 2012 (21281). Una grande prova di democrazia e di partecipazione che vuole essere un segnale di rispetto per le persone e di un modo di intendere la democrazia in una grande organizzazione di massa, che consegniamo al Paese intero e al mondo del lavoro.Lo facciamo con la consapevolezza di chi pensa di avere limiti, ritardi e anche contraddizioni che non vogliamo celare, perché sarebbe sbagliato non affrontare. Siamo al tempo stesso, però, consapevoli, davanti ad un’ulteriore ed impegnativa prova della nostra maturità, di essere una parte fondamentale ed importante della nostra confederazione. Lo scorso Congresso, del marzo 2010, aprivo la mia relazione con un sincero e affettuoso pensiero al dramma vissuto dal popolo cileno per il violento terremoto che colpì la terra di Pablo Neruda e di Salvatore Allende. Un anno prima, c’era stato il terremoto dell’Aquila e due anni dopo il sisma che colpì la bella Emilia Romagna, e poi Genova, la Sardegna. E ancora tanto spavento, non senza preoccupazioni per il futuro, recentemente qui in Campania e in Molise. Calamità naturali? Certo! Dicevano antichi adagi: la rabbia della natura che si ribella alle violenze della “mano dell’uomo”. In verità assistiamo alla deturpazione fino allo stupro della speculazione edilizia, all’aggressione smodata del territorio, al consumo sfrenato del suolo; senza distinzioni, da quello nudo, impermeabilizzato, a quello agricolo, terreno utile e comodo per costruirci di tutto, case, strade, supermercati, oppure, cose importanti come scuole, ospedali. Si scaricano sul territorio valanghe di cemento molto spesso impreziosite da valorosi studi di progettazione architettonica. Non sono i terremoti, o le alluvioni o gli straripamenti degli alvei dei fiumi o le frane che si “muovono” a fare danni. Piuttosto l’incuria e la rapina del territorio, frutto di politiche aggressive, condite da sanatorie e condoni. Piani Casa di varia natura, che rispondono ad una idea che noi vogliamo sconfiggere. L’idea che vede nel settore delle costruzioni, in un antipatico luogo comune senza distinzioni tra speculatori e operai, il braccio armato della speculazione, della ricerca del profitto e della rendita. In una miscela mefitica tra profitto e rendita parassitaria. Un combinato di finanza violenta e politica affaristica, in un abbraccio mortale e di interdipendenza con la criminalità organizzata camorristica e mafiosa. Il settore delle costruzioni ha grandi potenzialità positive e uno dei compiti che ci attende per il prossimo futuro, sul quale concentrare il nostro massimo sforzo è liberarlo, affrancarlo da questo marchio. Non vorremmo farlo da soli. Non riguarda solo noi. Lo riteniamo necessario e urgente perché pensiamo che nella legalità esigere i diritti e le tutele delle lavoratrici e dei lavoratori, sia un compito meno arduo, ma non per questo meno difficile. Anche perché sappiamo che è ancora molto diffusa una illegalità contrattuale e contributiva di chi pensa di risolvere la crisi “lucrando” e “lesinando” sulle retribuzioni. Facendo la “cresta” sulle ore lavorate e dichiarate nelle Casse Edili che, in tutta evidenza, viene fuori dai report semestrali delle Casse e che penalizza le tante aziende sane e regolari, le quali fanno i conti quotidianamente con la crisi. Ma riguarda tutti, istituzioni, associazioni imprenditoriali, forze politiche, il mondo delle conoscenze e della cultura. La bonifica e la moralizzazione del settore dell’edilizia è il paradigma per imporre, e non solo “auspicare”, una nuova etica politica, istituzionale ed economica. Libera, dalle ragioni strumentali del Progresso o dello Sviluppo, per dirla con Pasolini! Serve un grande Piano straordinario di messa in sicurezza del territorio (attraverso processi di vera e propria de-cementificazione) di tutela, manutenzione e riuso dei patrimoni residenziali e non; penso agli alloggi popolari (come si intende fare a Pozzuoli), alle scuole (una grande opera infrastrutturale primaria per gli asili nido) insieme ad una grande stagione di contrasto, di prevenzione e repressione dell’illegalità nel senso più lato del termine. Realizzando una nostra azione sui protocolli di legalità, con clausole di legalità da inserire nei capitolati di appalto, nei bandi di gara, per la qualificazione della domanda pubblica. Perché la legalità sia precondizione della crescita e il lavoro condizione per essere liberi e uguali. Affermare la legalità non come costo e lo Stato non solo come gerdarme. Ma agente di sviluppo e di lavoro, nell’opera di emersione e recupero delle aziende e dei beni sequestrati e confiscati alla camorra, separando le responsabilità dei lavoratori da quelle dei proprietari e rilanciare su questo la nostra azione qui in Campania. Combattere l’usura, che ha già fagocitato pezzi di imprenditoria con il cash della camorra, il cui potere è aumentato con la crisi, ha dettato regole e ha mediato socialmente le controversie. Occorre un credito amico del lavoro e della famiglie, normalizzare i pagamenti della P.A. Ecco questo potrebbe essere un primo e immediato banco di prova su cui chiamare alla responsabilità e alla coerenza il Governo, le nostre istituzioni locali. Le stesse imprese, che portano la responsabilità di aver pensato solo al profitto all’epoca della crescita, ad una disponibilità a processi di qualificazione anche reputazionale. Oltre la Patente a Punti - si pensi che a Napoli e in Campania nessuna azienda ha fatto richiesta di essere inserita nelle White List ndr - che chiuda una fase di ambiguità manifestata nell’esperienza degli Stati Generali. Dare senso e concretezza alle nostre stesse “parole d’ordine” della “crisi come opportunità” e del “tutto non sarà più come prima”. Ed è proprio così, vedete, il pensare che basti aspettare che passi la nottata (con tutto il rispetto per il grande Eduardo) non solo è illusorio, ma rasenta il suicidio. Regione Campania docet!! La crisi è devastante, i danni che ha procurato, e che sta ancora procurando, sono ingenti e non sono solo di natura socio-economico-occupazionali; essa ridisegna e riassegna i diritti costituzionali, alimenta solitudini e le nuove povertà. Nei cinque congressi territoriali e nelle tante assemblee di base - su questo vorrei davvero ringraziare i segretari, tutte le compagne e i compagni delle strutture, i delegati che hanno profuso tanto impegno e passione, in un mondo del lavoro così frammentato e precario- oltre ad aggiornare le analisi e le prossime strategie da mettere in campo per contrastare la crisi e reagire per uscirne, è avvenuta una attenta e aggiornata ricognizione dello stato della crisi. Più di 30 mila lavoratori mancano all’appello delle Casse Edili, fuori per fine lavoro, per chiusura anticipata, per sospensione delle attività in attesa di finanziamenti e di start-up, come la Metropolitana di Napoli, lo scandalo del Policlinico di Caserta, dell’Interporto di Marcianise, il Crescent di Salerno, la Lioni-Grottaminarda di Avellino, l’intervento sulle infrastrutture primarie (fogne) di Benevento. Più di 200 milioni di euro di salario perduto. E ancora lo stillicidio di tante fabbriche dei materiali dai laterizi, dalla Latermont e Ilas di Benevento e Avellino, ai manufatti, le grandi difficoltà del cemento, a Salerno con l’Italcementi, a Caserta con la Cementir e la Moccia, alla resistenza del legno con la Novolegno nell’Irpinia, e la nautica in provincia di Napoli con l’Aprea di Torre Annunziata. Non abbiamo certo bisogno di esternazioni dei tanti personaggi illustri della politica, delle istituzioni, dell’imprenditoria che oggi fanno a gara a chi la “spara” più grossa sull’entità della crisi. Non abbiamo certo bisogno della stereotipata e ovattata immagine dei talk-show, in cui si disserta delle ragioni e delle cause (anche quelle cosiddette psicologiche) del malessere sociale. E’ dal 2002 (sul declino industriale ricordate?) e poi nel 2009 e poi nel 2010, che la Fillea e la CGIL, nel declinare le inevitabili conseguenze di una crisi annunciata, che ritenevamo non a torto non congiunturale, non la solita “ciclica” dell’edilizia, ma qualcosa di più serio, di più profondo, di più strutturale e di sistema, ci dicevano che eravamo catastrofisti, cassandre, qualcuno addirittura ci apostrofava come “comunisti” e oggi si fa a gara sulle cifre con il segno meno, senza alcun pudore sulle responsabilità avute. Mi permetto un po’ di retorica, quella giusta dose che non guasta, noi la crisi la incontriamo tutti i giorni andando sui cantieri, nelle fabbriche, presidiando le nostre sedi diffuse sul territorio parlando con chi il lavoro l’ha perso e fa fatica a recuperarlo, con chi il lavoro non ce l’ha e non l’ha mai avuto, con chi lo sta perdendo e per tale ragione pensa, di poter forse rinunciare a qualche diritto, come pensano coloro i quali barattano lavoro e contratto, con chi non può andare in pensione perché troppo “giovane” e non può lavorare perché ritenuto troppo “vecchio”. La fase è estremamente seria e delicata, non esageriamo nel descriverla e nel denunciarla da tempo, e ci chiede di riflettere, anche su quello che noi potevamo fare e non abbiamo fatto fino in fondo. Come è successo per la “cd riforma Fornero sulle pensioni. Forse in quella fase siamo stati “flesciati” per usare un linguaggio giovanilistico, dallo spread, dalla paura del baratro, dalla vicinanza della Grecia, dall’accettare l’immorale ricatto “degli anziani contro i giovani”. In un Paese in cui i figli stanno peggio dei padri e i nipoti forse lo saranno ancora di più, nemmeno un euro, del “battere cassa” della riforma Fornero, è andato ai giovani, con l’unico risultato che anche i cd anziani stanno rincorrendo la precarietà e l’incertezza dei giovani. La legge Fornero va eliminata o quanto meno congelata per tutta la durata della crisi; vanno ripensati i coefficienti di rivalutazione e di calcolo per garantire una pensione dignitosa alle persone che hanno lavorato; vanno ripensate le aspettative di vita riducendo di 4/5 anni quelle degli edili, e sulla base di queste modifiche va ripristinata la flessibilità in uscita almeno a 62 anni, per restare con i piedi per terra!! Vanno realizzati interventi di ricostruzione di continuità contributiva sui periodi di non attività degli edili superando la soglia dei soli cinque anni figurativi utili per la pensione. Perché è “immorale” che un edile dopo tantissimi anni di lavoro si ritrova nel paniere previdenziale pochi contributi da far valere. E su questo dobbiamo impegnarci e batterci! Lo dobbiamo ai nostri lavoratori! Avere sogni è importante, e penso che nella nostra azione, ma in generale nelle forze del cambiamento, nella sinistra, si sia inaridito l’orizzonte. Ha prevalso anche tra di noi la ragioneria al quadrato, l’iperealismo, la fotografia della situazione e non la sua possibile trasformazione. Ciò ci ha portato a subire i colpi del liberismo palese e strisciante, a subire l’aumento delle diseguaglianze, al tempo stesso causa ed effetto della crisi, delle compatibilità non coniugabili con le aspirazioni di emancipazione e di libertà delle forze del lavoro, delle produzioni, del sapere e della cultura. Ma è pur vero che bisogna stare con i piedi per terra, relazionarsi con i contesti dati, misurarsi con le contraddizioni oggettive, e soprattutto, realizzare piena sintonia con il mondo del lavoro, provare a riunificarlo a dare una giusta e positiva rappresentanza. Solo così i sogni possono diventare realtà e non infinite notti insonni o peggio ancora incubi!! Il congresso deve assumere l’obiettivo di rispondere alla domanda di quale sindacato c’è bisogno all’alba della terza repubblica. Nel documento “Il lavoro decide il futuro”, prima firmataria Susanna Camusso, che nelle assemblee svolte ha raccolto la stragrande maggioranza dei voti espressi, che meritano il massimo rispetto, è indicata una possibile via d’uscita. Undici azioni: dall’Europa, alle pensioni, dalla scuola al lavoro, dalla contrattazione, a nuove e positive politiche sociali e industriali, dalle donne, alla democrazia e partecipazione nella CGIL e nel Paese. Azioni da realizzare e far vivere nei quattro anni da qui al prossimo Congresso. Azioni nelle quali la Fillea si rivede con un suo punto di vista, di una categoria importante, che è racchiuso nel documento politico/programmatico che sarà discusso e approvato nel Congresso nazionale. Su questo intendiamo qui in Campania rilanciare la nostra azione, la nostra vertenzialità, con il supporto dei coordinamenti regionali del restauro, di rete@donna, dei lavoratori non italiani, dei giovani. Sulla parola d’ordine del Congresso “Città FUTURE” che indica un percorso della categoria con forte impronta confederale per i prossimi quattro anni. Un percorso, di riconciliazione con i lavoratori e con il territorio, di recuperare una legittimazione sulla base di una rinnovata e innovata vertenzialità rivendicativa e non convegnistica, nei confronti delle istituzioni e delle associazioni imprenditoriali, e conquistarci sedi e spazi negoziali. Penso a come rinverdire esperienze come quelle dei 99 cantieri, fatte qui Campania, da riprendere, alle mobilitazioni per la Napoli-Bari, a riprendere iniziative come quelle del 31 maggio del 2013 e lo stesso sciopero generale del 13 dicembre sul contratto e il lavoro. Come ci attrezziamo per rispondere alla sfida della crisi e di come realizziamo un nostro ripensamento di strategie politiche e di modelli organizzativi per stare all’altezza del compito. Perché non vi è dubbio che le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori, delle persone sono peggiorate e non possiamo non accorgerci che ciò è avvenuto con noi, qui in Campania e in Italia. Con le nostre analisi, che ritenevamo e riteniamo giuste ed adeguate, con le nostre mobilitazioni (tante davvero), a volte in solitudine, anche se di ciò non ne abbiamo mai ostentato vanto. Dobbiamo avviare una seria riflessione che guardi molto di più a come tradurre le analisi in obiettivi e soprattutto in risultati, tangibili, esigibili, in grado di cambiare veramente verso, ma quello vero!! Passare dal narrare la crisi al chiedere soluzioni oggi e non domani. Ha ragione Walter Schiavella, quando ci ricorda che non possiamo accollarci tutte le responsabilità degli arretramenti che ci sono stati, caricandole solo sulle nostre spalle. Quando ci richiama ad un atto di umiltà (che è forza della ragione e della volontà), a non essere eccessivamente indulgenti con noi stessi, ad andare a vedere quanto è determinato da “elementi oggettivi” e quanto invece da nostre scelte “rivendicative”, pur sapendo che non tutto dipende da noi, anzi! Io però penso che uno dei nodi che abbiamo da sciogliere sia proprio questo e il congresso su questo deve discutere. Un Congresso difficile, aspro, la cui tenuta “unitaria” è fortemente messa in discussione da fibrillazioni che minano la nostra Confederalità. E non possiamo permettercelò. Per la crisi che stiamo vivendo, da troppi anni ormai, che ha segnato e segnerà pesantemente il futuro di intere giovani generazioni, che rischiano di andare in conflitto con il mondo del lavoro, se non si da loro rappresentanza e voce. La crisi nasce dal primato del sistema finanziario e monetario, e dall'affermarsi di scelte politiche che hanno reso possibile la circolazione dei capitali senza alcun vincolo né controllo, svalorizzando di conseguenza il lavoro e riducendo l'occupazione. Va detto, con onestà, che la svalorizzazione del lavoro, della sua dimensione sociale e umana, ha caratterizzato tutti i vari governi che si sono succeduti dalla crisi della politica, dal1992/1993, in poi! La stessa Politica che è chiamata a dare risposte e rappresentanza alla crisi, alle sue ansie e se non lo fa il Sindacato deve pretenderlo. Questo ha determinato una concentrazione della ricchezza e dei poteri in mano a pochi come mai nella storia recente. L'effetto non poteva che essere uno svuotamento degli spazi di partecipazione democratica e di riduzioni di quelli pubblici con l’apertura di una profonda crisi della coesione sociale e di conseguenza della democrazia. Gli ultimi venti anni del nostro paese, ci hanno riportato negli anni bui della nostra storia. Siamo scivolati in un contesto socio-politico-culturale senza precedenti, che ci ha fatto provare un forte senso di disagio, di disorientamento, senza alcun contrasto a forme di populismo reazionario che privilegiava l’attacco ai diritti dei lavoratori. Neanche dopo il secondo conflitto mondiale si avvertiva questo senso di smarrimento. Quanti lavoratori, cittadini, pensionati, imprenditori hanno perso la vita in questi anni di crisi, in una profonda solitudine? Quanti padri si sono uccisi davanti ai figli, quanti genitori hanno ucciso i figli stessi, perché deboli davanti alla crisi, alla difficoltà che avanza? Quanti progetti di vita sono stati distrutti da un potere economico che ancora oggi stenta a cedere il passo alle reali esigenze del paese? Allora, per uscire dal dramma della guerra, i padri costituenti, si affidarono al ruolo primario e fondante del lavoro, sin dalla Carta Costituente. Non è un caso che la CGIL, oggi si propone di tracciare le linee guida del suo congresso, e al tempo stesso lancia un messaggio forte all’intero Paese, che è il “lavoro che decide il futuro” e che il Sindacato non è altra cosa!! La parola chiave di questa fase è “crisi”, declamata e declinata nei suoi diversi aspetti, fin dal suo avvio negli USA nel 2007. Una crisi divenuta globale e reale con effetti dolorosi sulle persone. Una crisi non solo economica, ma anche sociale e ecologica. Ma anche crisi della rappresentanza sociale e politica. Le grandi modificazioni intervenute nel mondo del lavoro e delle produzioni, obbligano analisi severe sulla capacità del Sindacato di rappresentare e anche di interpretare in chiave rivendicativa e di orizzonte le novità affioranti, le istanze sempre più esigenti e al tempo stesso inascoltate. Guardiamo al vasto mondo della precarietà, al falso lavoro autonomo, che pure in edilizia e nella sua filiera produttiva si affaccia pericolosamente, che tentiamo di contrastare con gli strumenti contrattuali essendo forte la pressione padronale per affermarla. Penso alla centralità del tema ambiente e territorio non più come preda per la rendita, ma come una vera risorsa ed opportunità. Come non pensare immediatamente alla Terra dei Fuochi, a quei rifiuti tossici, provenienti dalle fabbriche del Nord Italia e dall’Europa, scaricati lì in contiguità con la criminalità camorristica favorendo un’economia illegale che ha contaminato territorio e coscienze. C’è bisogno, oltre al decreto, di un sussulto di verità e di civiltà per una radicale bonifica e riqualificazione di quelle aree chiudendo le porte alle paradossali infiltrazioni criminali nelle stesse attività affidando le stesse a Società già costituite come Campania Ambiente. Penso alle questioni dell’immigrazione e delle differenze di genere che rischiano di essere semplici congiunzioni sotto i colpi della crisi. Ad un rinnovato impegno, ripartendo dalle lotte contro il caporalato realizzate anche qui in Campania (con risultati importanti), per i diritti contrattuali, sindacali e di cittadinanza per i lavoratori non italiani e per raccogliere la “sfida della rappresentanza”. Assumere la diversità di genere come una ricchezza, un valore aggiunto ponendoci il superamento delle differenze sociali, contributive e retributive, (è recente la denuncia di una vergognosa sperequazione nel valore del lavoro e del reddito tra uomini e donne), contrastare gli attacchi ai diritti civili, alla legge 194, alla parità elettorale uomini-donne, anche in una categoria a forte predominanza maschile, che non ci ha impedito di realizzare una bella esperienza editoriale-sindacale, pensata e realizzata qui in Campania, con il libro FIORI DAL CEMENTO, da cui ripartire!! Penso allo spreco e all’abbandono del grande patrimonio storico-artistico-archeologico che vede in Pompei, il suo Grande Progetto, sono recenti nuovi e inquietanti crolli, che con i suoi 105 milioni di euro portati in dote, nell’aprile del 2012 da un capo di governo e ben 4 ministri, rimane fermo al palo, (spesi appena 4 milioni di euro con tre cantierini aperti al max ribasso) con il rischio di un fallimento scandaloso e lo “scorno” di chi va dicendo che il tutto è colpa dei troppi vincoli del protocollo di legalità. La Fillea s’impegna nelle prossime settimane ad una forte mobilitazione per il lavoro e per difendere la Bellezza, quella piccola e quella, grande dell’Oscar. E qui da noi, da Pompei, a Velia, dalla Reggia di Caserta, ai Campi Flegrei, dal Centro Storico di Napoli e perché no a Città della Scienza, grande opportunità e grande scandalo con il Real San Carlo. "Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore ( lo scrisse Peppino Impastato, giovane comunista trucidato dalla mafia dei Badalamenti)". Ma è anche crisi di rappresentanza ed essa passa anche attraverso l’assenza di regole certe che, insieme alla spregiudicatezza di altri, hanno consentito stagioni non esaltanti fatte di accordi separati, che negavano la parola e il giudizio ai lavoratori, di esclusioni clamorose a dispetto dei lavoratori, di importanti categorie come la Fiom e non solo. Se ciò è vero non è una forzatura l’aver condiviso con Cisl, Uil e Confindustria, al di là delle forme, un’intesa per dare certezza di esigibilità alla contrattazione, di protagonismo ai lavoratori nel decidere sulla bontà e la validazione degli accordi raggiunti, certezza della rappresentatività e della rappresentanza, in attesa di una legge che la CGIL chiede da troppi anni. I contenuti dell’accordo attuativo del 10 gennaio, nella complessità delle intese del 28 giugno e del 31 maggio, vanno esteso ai tanti lavoratori ancora esclusi, o perché dipendenti di aziende non della Confindustria o perché al di sotto dei 15 dipendenti e nelle costruzioni ce ne sono non pochi. In un mondo del lavoro così frammentato e complesso come l’edilizia e non solo, rimane un nostro obiettivo. Pertanto nella consultazione che avvieremo nei prossimi giorni, in ossequio alle deliberazioni del direttivo nazionale della cgil del 26 febbraio, e con un protagonismo della nostra categoria, sapremo trovare le corde giuste per sintonizzarci con i lavoratori, alla pari con tutte le altre categorie sapendo che i voti si contano per le persone che li esprimono per il loro essere lavoratori e non certamente per censo o peggio ancora per peso specifico. Io penso che occorra su questo l’avvio di un franco e deciso chiarimento, dentro la CGIL e con la CGIL, non più rinviabile. Non è parlare d’altro rispetto alla crisi, se è vero come è vero, che concetti antichi come l’unità sindacale, la confederalità, l’autonomia stessa del Sindacato, della CGIL e della Fillea, chiedono di essere riconsiderati alla luce dei fatti nuovi di questo millennio. In questo senso nel ringraziare Giovanni e Luigi per la loro presenza qui stamattina, voglio sottolineare l’assoluta necessità di trovare fin dai prossimi giorni modi e forme unitarie per rilanciare la nostra mobilitazione, di analisi e di proposta, per contrastare la crisi, il lavoro nero, affermare la cultura della sicurezza sui cantieri, trovando il modo di vertenzializzare la nostra azione, per chiedere controlli e sanzioni, per conquistare il lavoro nella sua pienezza di significato. E farlo con la consapevolezza che lo sforzo di ritrovare l’unità vera lo si fa partendo dai problemi dei lavoratori. E questo forse che ha consentito alla nostra categoria di restare uniti anche in momenti difficili per l’unità sindacale, prova ne è la tenuta sui rinnovi dei contratti, fino ad ora. La domanda da porci è se abbiamo fatto sempre tutto bene. Ma questo lo sapremo solo vivendo e facendo. Gli accordi unitari raggiunti aiutano questo sforzo, sapendo che essi pongono su un terreno di sana e leale competizione il reinsendiamento del sindacato sul territorio e sui luoghi di lavoro, anche sul versante del proselitismo. Preferisco cogliere e porre questa nobile sfida anziché ipocriti appelli unitari che si infrangono alle prime difficoltà. Gli stessi sforzi della Fillea sul proselitismo, importanti e faticosi da Napoli, a Salerno, da Caserta a Benevento, in terra di Irpinia, vanno anche in direzione di rafforzare il peso della categoria a beneficio di tutti, per cambiare passo per imporre regole e politiche di crescita. Ma occorre contrastare, qui in Italia e soprattutto in Europa le politiche di restrizione, monetaristiche e finanziarie, ammantate di “falso rigore”, che non sono ne la medicina ne la ricetta, piuttosto la malattia, che determina nuova precarietà e lo status di cittadinanza di intere generazioni e che hanno un chiaro segno politico di destra. In un’Europa scossa profondamente dal dramma dell’Ucraina e dall’escalation della tensione in Crimea. Ecco perché la prossima scadenza elettorale per rinnovare il Parlamento Europeo e la governance politica della Comunità, alla luce anche di buone notizie per le scelte del PD di aderire al PSE, assume un valore importante, per avere più e non meno Europa, per una nuova stagione di lotte e per nuove politiche per il lavoro, per uno stato sociale sostenibile ed universale, affermando un nuovo e più efficace punto di vista meridionale e un nuovo meridionalismo. Un Mezzogiorno occasione di crescita per tutto il Paese, la cui competitività non va giocata sui diritti dei lavoratori e sul costo del lavoro, ma sull'innovazione di settori quali l'energia, i beni ambientali e culturali, in un sistema industriale, dall'agricoltura alla manifattura, allo stesso settore edile, ad un turismo di qualità per gli stranieri e i cittadini italiani. Ciò impone un’azione ancora più forte qui in Italia. Nella nuova fase del Governo Renzi a cui non si può non chiedere quello che è stato chiesto a Monti e/o a Letta. Lo dico senza riserve, che anche con qualche vizio d’origine sulle modalità di accesso a Palazzo Chigi, e qualche conflittino d’interesse, non si può non augurarsi che l’azione sia efficacia e positiva per le questioni che noi, la Fillea, la CGIL poniamo da tempo. Passando dagli annunci e dai titoli ai fatti concreti che non esiteremo a valutare e ad apprezzare, se positivi. Ecco perché è importante darsi e dare una vera e propria “piattaforma” che affermi la centralità del lavoro, del mezzogiorno, della buona e piena occupazione. E bene ha fatto la CGIL, e poi subito dopo la Fillea, a lanciare il Piano del Lavoro, come fece Di Vittorio nel lontano 1950, come terreno verificabile di mobilitazione, d’impegno e di risultati da conseguire. Un Piano rivolto a chi il lavoro non l’ha mai avuto e a chi lo sta perdendo, che ci faccia, anche passando per il Congresso nostro, abbandonare la sola denuncia e narrazione della crisi. Con il dare senso e concretezza alle parole che si dicono e che sembrano accomunare tutti. Le riforme? Certo, ma quali? Non tutte sono uguali, di quale segno e a chi parlano? Non basta evocarle per essere annoverati giusti tra gli uomini, se penso che anche la Signora Fornero ha fatto le sue riforme e sono ancora lancinanti i danni provocati, se penso alle pensioni e non soltanto per gli esodati, ma su quanto questo abbia significato per il mondo del lavoro specie per quello edile. Il lavoro? certo …, ma quale lavoro? Tutti lo vogliono e figurati....ma dove lo si cerca e chi lo produce e come lo si distribuisce a partire da quel poco che ne rimane oggi? Il JOBS-ACT? L’ennesimo esercizio accademico sulle regole? No grazie! Noi riteniamo prioritaria la creazione di lavoro, di nuova e buona occupazione, una rete di protezione universale di ammortizzatori sociali, necessari come nel 2010, a partire dal rifinanziamento di quelli in deroga, ma di un loro superamento. Uscire dalla crisi, ma in che modo? Naturalmente portando avanti tutti senza lasciare indietro nessuno. Allora se è così non si tratta solo di dare opportunità a tutti, ma di stabilire da dove si parte, quali sono i box di partenza. Semplificare certo, ma significa sburocratizzare sul serio? O invece abbassare l’asticella delle regole e della legalità, come qualcuno sollecita ad ogni piè sospinto, pensando alla legalità e regolarità come zavorra da scaricare, penso al DURC per congruità, ai suoi continui rinvii, alle velleità di pezzi importanti dell’imprenditoria edile e non solo, che spingono in questa direzione. Superiamo o no logiche e criteri di affidamento delle opere legate solamente al prezzo più basso senza guardare alla qualità? in un balletto tra massimo ribasso e offerta economicamente più vantaggiosa senza pensare ad una necessaria riqualificazione delle strutture pubbliche preposte alle procedure di affidamento dei lavori? all’affidabilità delle imprese e alla loro sostenibilità, al superamento di una loro finanziarizzazione che ne ha ridotto la funzione sociale? Affermare meccanismi che aiutano la competitività non più sul costo del lavoro (termine da bandire), ma sull’innovazione e sulla ricerca sconfiggendo una stereotipata immagine del settore come old economy da rottamare, ad un codice degli appalti in grado di garantire tutti gli attori del processo? Non credo che bisogna rassegnarsi alla neutralità degli atti, all’appiattimento dei contrasti, ci sono genitori ben definiti della grave crisi che oggi attraversiamo: le politiche di destra, neo liberiste non fondate sul lavoro!! Si comincia seriamente a parlare di risorse da recuperare per evitare di fare solo annunci e poi accantonare tutto o nella migliore delle ipotesi distribuire briciole di pane come per il cuneo fiscale? Si innesca un circuito virtuoso per colpire l’evasione, vero bubbone dell’equità fiscale e la corruzione, di cui non si parla più, con i tanti miliardi (quasi 200 in tutto) che pesano sulle finanze pubbliche? E una buona fetta appartiene al nostro settore!! Ovvero, non sarebbe il caso far pagare un po’ di più chi ha di più e ha continuato ad avere di più anche durante la crisi? Noi pensiamo davvero che il settore delle costruzioni, uno dei settori più efficaci dal punto di vista anticiclico per generare occupazione, in un’economia schiantata dalla recessione, possa andare anche oltre la sua storica funzione per ridisegnare e ridefinire ruolo e funzioni delle nostre città (da qui il titolo del nostro Congresso: CITTA’ FUTURE!!), dei nostri territori, della fruibilità degli spazi, dai centri storici alle periferie accorciando sempre di più le distanze, di buone e utili infrastrutture che aiutano lo sviluppo e la crescita civile, penso alla trasportistica pubblica di persone e di merce, dalla Metropolitana regionale, alla Napoli-Bari, alle infrastrutturazioni primarie. Se penso alle buche delle strade di Napoli mi viene un nodo alla gola! Serve un piano nazionale di investimenti del lavoro e per il lavoro, con un rinnovato ruolo dello stato, senza l’anatema della “spesa pubblica”, e facendo una sana “Spending Review” che significa riallocare risorse e non tagli lineari. Per le grandi infrastrutture, ma anche piccoli cantieri, per ridare ossigeno al settore e ripartire. Un piano nazionale che sblocchi in modo selettivo il Patto di stabilità e liberi risorse a disposizione dei comuni che potrebbero essere orientate verso uno sviluppo diverso, sostenibile, con politiche di sostegno strutturali e non estemporanee, come la pioggia a tratti di bonus o di rottamazione varie. Si potrebbero aprire cantieri utili per il ripristino idro-geologico del Paese per evitare che tutto il territorio venga giù solo alla prima goccia d'acqua, e manutenere le reti ridotte a colabrodi anche qui in Campania. E invece assistiamo ad un immobilismo senza tregua nella nostra regione. E qui sta il punto per noi da domani, anzi da ieri! Si fa fatica ad individuare i risultati di un’azione di governo dell’attuale presidente Caldoro per annoverarlo tra i più graditi in Italia e nel Sud. Certamente non a noi che ha sempre negato una corretta interlocuzione, sulla contrattazione e concertazione di anticipo sui progetti. Se guardiamo i dati forniti da autorevoli istituti di analisi e di ricerca, dallo SVIMEZ, all’Unioncamere, all’ISTAT, viene fuori un quadro desolante dell’intero Mezzogiorno e della Campania, certo pur nelle poche e importanti eccellenze che autorizzano a pensare che si può fare. La Campania si attesta agli ultimi posti per PIL legale prodotto (se poi si guarda a quello reale meglio lasciar stare), per occupazione, per qualità della vita e reddito prodotto e distribuito, e ai primi posti per povertà indotta, cassa integrazione, disoccupazione, disaffezione alle istituzioni. In Campania e a Napoli l’assenza di lavoro è un vero allarme e dramma sociale. I dati diffusi dallo SVIMEZ con il Rapporto 2013 confermano interamente la grave crisi del settore delle costruzioni e non poteva che essere così, visto che in questi anni di difficoltà, 2009-2013, e ancora oggi, non è stato messo in campo alcun provvedimento per invertire la situazione, anzi. In particolare nelle aree del Mezzogiorno la perdita secca del valore aggiunto del settore è pari al 6.9% (+ 0.8%) rispetto a quello del Centro-Nord (6.1%). Con l'aggravante che la perdita nel Sud è ancora maggiore rispetto a quella del Centro-Nord." E così, anche nel volume degli investimenti, si perde più al Sud che al Nord. Idem sui livelli occupazionali. Oltre il 50% di posti di lavoro si sono persi nelle regioni meridionali ricordando che a questo triste quadro di riferimento la Campania concorre in maniera massiccia. Sono ormai diversi semestri che gli indicatori delle cinque Casse Edili della Campania sono caratterizzati dal segno "meno", tranne quello del ricorso alle casse Integrazioni e alle Disoccupazioni Speciali che hanno il segno “più”. I dati "contraddittori sull'emissione dei bandi pubblici per opere pubbliche, che assegnano alla Campania il primato di più gare bandite, rivelano nei fatti un valore degli importi pari al 70% in meno rispetto a quelle del Centro-Nord. C'è un problema di dualismo vero al di là di ogni propaganda e di “edulcorazione della realtà". Un dualismo in quantità e in qualità, che va affrontato e superato. La Campania deve diventare una vertenza prioritaria e nazionale entro la quale viva un Piano del lavoro in edilizia che sappia rispondere all'emergenza realizzando e completando le opere programmate, dall'Agenda 2007-2013, ai 19 Grandi Progetti, ma soprattutto ad una diffusa cantierizzazione di piccole e medie opere della riqualificazione a partire dai programmi di Europa Più e degli Accordi di Reciprocità. Qui sta la sfida per noi da raccogliere, è necessario pensare ad un diverso modello di produttivo e di sviluppo del settore, che nel completare i tanti progetti in fieri, privilegi la sostenibilità, l'efficientamento energetico, l'economia verde, zero consumo di suolo, la sicurezza e la manutenzione del territorio e del patrimonio scolastico ed abitativo. Dando ad esso, però, e qui è il salto di qualità, una dimensione vertenziale e rivendicativa, una nuova governance del territorio, con un’opportuna leva fiscale e strumenti urbanistici adeguati. Insomma, non appaia irriverente, ma si tratta di vedere insieme in edilizia Keynes e Shumpeter!! Non è un arretramento verso sponde velleitarie, ma è la risposta alla crisi, alla domanda di come si esce da essa, dare prospettiva reale al “niente sarà più come prima”. Ci sono decine e decine di aziende in consorzio sulla sostenibilità con fondi e progetti da realizzare, come il consorzio STRESS o delle PMI. Occorre dunque ripensare ad un intervento massiccio sulle città, riprendendo i principi del Progetto Sirena, realizzato a Napoli, intervenendo sulla programmazione dell'Agenda dei Fondi Comunitari 2014-2020, sull’asse CITTA’, concentrando sulla rigenerazione e efficientemente energetico e recuperando il concetto di addizionalità non suppletivo degli interventi ordinari. È questa la strada per risollevare il settore, dal versante produttivo e occupazionale per affrancarlo dall'emergenza e dalla vulnerabilità, per poter dare un contributo all'economia più generale della Regione. Occorrono politiche propulsive, di competitività produttiva e territoriale, di collaborazione istituzionale (e invece si litiga tra Comune di Napoli e Regione sui fondi per l’edilizia scolastica fino a rischiare di perdere i pochi soldi, 18 milioni, di investimenti pubblici). Siamo a questo! Non è un caso che la Regione Campania insieme alla Sardegna risulta essere la maglia nera per quanto riguarda la spesa effettuata sui fondi per l’edilizia scolastica nel riparto dei 150 milioni di euro del Decreto Del Fare: appena 4 milioni sui 16 assegnati! Vedremo se si saprà sfruttare l’allentamento del Patto di Stabilità interno per 500 milioni di euro che assegna alla Campania circa 40 milioni di cui ben 18,9 alla Città di Napoli, che risulta essere in colpevole ritardo per il Piano Città di cui al Progetto di ristrutturazione della ex Corradini. O i riparti dei due miliardi annunciati dal ministro LUPI per l’edilizia scolastica e dell'adozione di una scuola per ogni comune. Certo c’è un problema di risorse, ma utilizzare quelle poche disponibili, dà la cifra del “se siamo” di fronte ad un’inversione di tendenza e non invece agli annunci e proclami come i 1000 cantieri promessi da Caldoro per il 2014 e dei tanti Piani Casa, quando invece il problema è quello di utilizzare le risorse (non pochissime) a disposizione delle P.A. per la realizzazione di alloggi popolari su aree dismesse impermeabilizzate, in una logica di partenariato pubblico-privato. Intanto nel 2013 sono spariti altri 34 mila posti di lavoro in campania e l’assessore al lavoro continua a magnificare l’azione della Giunta e gli strumenti messi in campo…singolare e stucchevole per una regione in preda al timore del presente e del futuro. Si dice i conti sono in ordine! Sarà…forse….Vedremo! Ma intanto è dal 2010 che si è fermi al palo. Sui Grandi Progetti, 2700 milioni di euro solo una minima parte spesi sui progetti della Metropolitana di Napoli e le sue stazioni dell’arte, su Europa Più 750 milioni il 35% mentre è uno scandalo il Progetto Unesco del Centro Storico di Napoli che non decolla, alla pari di Pompei. Il tutto con la spada di Damocle della perdita dei fondi da qui al 2015. Sui fondi UE dell’agenda 2007/2013 si tenta, in zona cesarini, una lenzuolata di progetti sponda pari a poco più di un miliardo con un bando di accelerazione della spesa, tardiva e a rischio di inconcludenza, mentre si litiga tra Comuni e Regione. Qualche recupero sui gravi ritardi di spesa sui fondi strutturali è avvenuto contabilmente senza ricadute su cantieri e occupazione. Ma nulla di più. E intanto la crisi morde senza freni. Vorremmo tanto vedere qualche gru alzata e qualche scalpellino in più in azione. La verità è che manca uno straccio di idea di cosa deve essere la Campania, quali asset strategici occupare e aggredire, quali ricomposizioni urbanistiche seguire. L’ultima vera pianificazione urbanistica in grado di dare una collocazione alle varie funzioni del territorio regionale risale al 2009 con l’approvazione del PTR (piano territoriale regionale) con i suoi 45 ambiti territoriali di sviluppo per dare alla Campania un profilo di una regione proiettata verso il mediterraneo in connessione con gli assi strategici nord-sud e est-ovest assumendo una dimensione di vera e propria piattaforma logistica, puntando su porti e interporti e in questo senso anche il settore delle costruzioni aveva una sua dinamica, una sua programmazione e una sua funzione. Tutto sfumato e da allora solo il buio, solo politiche e interventi legate all’emergenza e all’approssimazione. È del luglio 2010 la delibera regionale che azzerava e sospendeva tutto quello che era stato pensato e fatto dalla Giunta precedente a quella di Caldoro con il proposito di darsi 60 giorni di tempo per riprogrammare il tutto. Sono diventati 1000 i giorni di riflessione e ciò ha aggravato ancora di più la situazione e la stessa eredità (i 290 milioni di deficit sono diventati 1 miliardo e 200 milioni) e si fa fatica a immaginare se non sia colpa anche di quello che sostanzialmente possiamo definire l’immobilismo di impronta tremontiana. Certo ci sono state le riduzioni dei cofinanziamenti nazionali ai fondi comunitari, riducendo l’efficacia degli stessi, il Patto di stabilità, l’utilizzo improprio e scandaloso dei fondi FAS che hanno fatto il resto. Responsabilità congiunte quindi nazionali e locali! Il quadro sommariamente descritto, volutamente non troppo infarcito di dati e cifre, è dal 2011 che sforniamo almeno due report all’anno tra l’indifferenza generale, da quando tutti hanno scoperchiato il vaso di pandora della crisi fino a qualche mese fa oscurata (vi ricordate i ristoranti e gli areoporti pieni ndr?), è il contesto entro cui ci muoviamo!. E in questo contesto abbiamo rinnovato i contratti integrativi del settore dell’edilizia in Campania. Fatto salvo la buona e positiva neofita contrattazione integrativa regionale con le Associazioni Artigiane e delle Piccole e Medie Aziende, che pone una seria riflessione sulla funzione paritaria della bilateralità, non possiamo non ricordare la poca disponibilità, dell’ANCE, sia pure in maniera differenziata, a trovare una mediazione onorevole che tenesse conto della crisi, ma anche delle esigenze dei lavoratori tradotte attraverso piattaforme rivendicative ispirate al “buon senso”, ma che hanno incontrato chiusure incomprensibili che hanno palesato una cultura contrattuale non degna di un settore che si candida, e che vogliamo candidare, a motore dello sviluppo. Parimenti succede per il rinnovo del contratto nazionale scaduto da più di un anno con ANCE e COOP, che stanno tenendo sotto scacco non il Sindacato, ma centinaia e centinaia di migliaia di lavoratori, un settore alle prese con una crisi difficile che non ha ostacolato, ecco la contraddizione in termini, il rinnovo di tutti i contratti della filiera compresi quelli dell’artigianato e delle piccole e medie imprese. La verità è che si vuole utilizzare la crisi per picconare il contratto, i diritti dei lavoratori, abbattere il costo del lavoro riducendo il reddito dei lavoratori, che nelle occasioni “mondane” vengono definiti dagli stessi costruttori primi collaboratori. Cosa è, se non questo, la proposta di “riforma dell’APEO” che ne sentenziano la fine, del salario ridotto a prebenda, dell’attacco sostanziale alla bilateralità, le richieste di nuove flessibilità in un settore già discontinuo di suo, delle modifiche, in pejus, sulla malattia. La verità è che siamo di fronte ad una crisi di rappresentanza che le imprese farebbero bene ad affrontare e risolvere e non scaricarle sulla contrattazione. Non è tempo di vivere di rendite e di antichi monopoli vale per noi e vale per gli imprenditori. Noi difendiamo il contratto di lavoro e non abbiamo nessuna intenzione di barattarlo con la crisi. E al tempo stesso poniamo la nostra attenzione sul rischio di disaffezione al contratto che il confronto in corso con Ance e Coop porta in se. Per noi contrattazione e rappresentanza sindacale, sono i temi cardine del nostro agire quotidiano, strumenti irrinunciabili per difendere il lavoro e le sue condizioni. Confermiamo la validità dei due livelli di contrattazione, quella Nazionale (di primo livello) e regionale/provinciale/aziendale (di secondo livello). Tuttavia non ci poniamo a guardiani dell’esistente, ma siamo impegnati a rinnovare in meglio le strutture contrattuali verticali e orizzontali, rivendendone perimetri e funzioni, in rapporto con la bilateralità. E massimo deve essere il presidio di essa, non come fortino da difendere, ma innovando profondamente, partendo dalle crisi più urgenti in Campania, puntando a razionalizzare e efficientare, pur sapendo che è l’intero sistema che va ripensato e sono convinto che possiamo impegnarci con gli amici della Filca e della Feneal e con gli imprenditori, tutti, già da ora senza aspettare benedizioni o via libera. Coniugando direttive di emanazione contrattuale con le nuove funzioni degli EE.BB., stando attenti a fare diventare la discussione patrimonio dei lavoratori tutti, che appartiene a loro e non agli addetti ai lavori. La Fillea è disponibile, e porta in dote una discussione nazionale e territoriale. Ha ancora senso avere quattro contratti di lavoro nel settore edile? Se sul versante del settore delle industrie delle costruzioni, lapidei, laterizi, legno e cemento, potrebbe essere ipotizzabile un accorpamento di attività e quindi di contratti, sul versante edile, un accorpamento sembra non rispondere alle reali esigenze del settore. Il lavoro edile, che da sempre è una specificità, è oggi un agglomerato di professionalità non sempre riconducibili al contratto edile e questa è un’anomalia. Sempre meno muratori sempre più montatori è in sintesi la lettura di ciò che avviene nei cantieri, è stato detto e scritto nelle nostre riflessioni di Firenze di Genova che ispirano la nostra azione. Ma tutto ciò che si muove nei cantieri edili può essere riconducibile al contratto edile? In un quadro così largamente complicato e poco riconducibile al tradizionale cantiere edile, assume ancor più forza, e necessità, l’esigenza di un sistema di tutele che assicuri regolarità, contrasto a forme di dumping contrattuale, sicurezza agli attori di quel perimetro produttivo. Le figure professionali che si muovono nell’ambito di un cantiere edile devono trovare disciplina in un contratto di settore. È chiaro che ciò può avvenire solo in presenza di una forte spinta contrattuale da mettere in campo con il contratto unico nazionale, ma deve, gioco forza, trovare soprattutto nei cantieri, agendo sin dalla nascita del cantiere stesso, un’azione di contrattazione all’origine del cantiere stesso. La contrattazione d’anticipo sulle “grandi opere” anche se poche, e sui grandi interventi territoriali, deve trovare esigibilità e cogenza necessaria affinché materie come l’organizzazione del lavoro, le retribuzioni, la professionalità e la sicurezza trovino il giusto riconoscimento e si possano cogliere gli obiettivi fissati. Ma non possiamo dimenticare che la dimensione del settore oggi ci consegna una frantumazione esasperata che rischia di tirare via dal perimetro contrattuale gran parte del comparto lasciando solo quello dato dal secondo livello territoriale. E’ un problema questo nella misura in cui il secondo livello non riesce ad incidere come noi vorremmo sul cantiere, sulle modalità di lavoro, sulla sua organizzazione, rischiando una sorta di “autoreferenzialità”. Il punto è per noi come il cantiere ridiventa il baricentro della nostra azione. E veniamo a noi. Alla FILLEA, delle “Città Future”, alla CGIL de “Il Lavoro decide il Futuro”. Sono i due incipit che Fillea e CGIL hanno inteso adottare per i propri congressi. Ma in tutti e due c’è un comune denominatore, un denominatore che tra la nostra gente evoca sconcerto, sfiducia, speranza … il futuro. Nelle città e con il lavoro, il futuro è la chiave di volta per uscire dalla crisi. Ma nel futuro oltre alle città e al lavoro ci deve essere il sindacato, la FILLEA, la CGIL. Se è vero come detto prima, che dopo la crisi nulla sarà più come prima, è chiaro che ciò riguarda anche noi, si riflette nei nostri organismi dirigenti, nella rete dei delegati che faticosamente costruiamo nel tempo. Quale sindacato avremo dopo la crisi? E come arriveremo alla fine della crisi? Abbiamo e stiamo reagendo alla crisi. Nel 2010 la Fillea contava in Campania 21.200 iscritti, nel 2013 21.235 con un leggero calo rispetto al 2012 con 21.281. Una grande organizzazione sindacale come la nostra ha l’obbligo di essere al passo con i tempi, tradurre in strategie rivendicative le nuove istanze e dar loro rappresentanza e indicare una strada da percorrere. Nuovi tempi di lavoro, nuove esigenze e modelli di vita, flessibilità lavorativa marcata da esigenze di mercato e da una nuova domanda di lavoro sempre più a basso costo, esigono una presenza ed una qualità sindacale all’altezza dei cambiamenti, per dare voce e rappresentanza agli “invisibili”. La globalizzazione e la tecnologia hanno creato le condizioni del distacco tra mondo del lavoro e organizzazione sindacale. Anche la semplice richiesta di informazioni su un diritto contrattuale una volta significava rivolgersi all’organizzazione sindacale. Oggi non è più così. La prima notizia, quella di base, spesso è acquisita in rete, e spesso ci si rivolge al sindacato solo quando non se ne può fare a meno. In questo modo non c’è storia costruita, le relazioni tra i due soggetti, operaio e sindacato, è una relazione acerba che spesso nasce e muore nella tutela di un diritto. Mentre sempre più i servizi assumono un ruolo maggiore, soprattutto sotto la spinta di attività delegate dallo Stato ai Patronati. Quanti lavoratori oggi sanno tracciare le differenze tra un’attività di servizio erogata dal patronato da un vera attività sindacale di tutela contrattuale costruita in sinergia con la categoria? Perché il sindacato, la FILLEA, la CGIL, è ancora un sindacato che costruisce tutele e diritti più che erogare servizi! La stessa consapevolezza è chiara ed evidente anche nei nostri gruppi dirigenti? Come per la crisi, per il paese, anche per noi, la capacità di lettura delle condizioni del nostro corpo sindacale è condizione “sine qua non” per adottare soluzioni appropriate. È indispensabile conoscere di cosa si è ammalati per individuare la giusta cura. Evitando, possibilmente, di somministrare la malattia sottoforma di medicina. La crisi economica che ci sta interessando è solo uno degli aspetti delle nostre difficoltà. Il sindacato oggi ha problemi che vanno più in profondità, se fossero legati solo alla disponibilità di risorse economiche si potrebbero affrontare con strumenti noti. Ma penso che i nostri problemi abbiano radici più profonde, legati a problemi da troppo tempo ignorati e tamponati con soluzioni a volte estemporanee. Se non ora quando? Penso sia giunto il momento, anche per noi, come per il paese, come per la crisi, di ripensare la nostra organizzazione. Non penso si debba rinviare ancora, sarebbe un danno per la nostra confederazione. E non penso che individuare soluzioni tampone, delegate ad altri livelli dell’organizzazione, a partire dai territori, possa essere il modo migliore. La FILLEA affronta, con un documento organizzativo, che troverete in cartella sul supporto informatico, il tema dell’organizzazione. Traccia e individua soluzioni a mio avviso opportune e anche questa per noi è' una sfida impegnativa. Se è vero che lo scenario contrattuale non è secondario rispetto ai livelli della nostra organizzazione, se è vero che sul piano istituzionale si potrebbe andare al superamento di alcune province, se è vero come già detto prima che si dovrebbe puntare alla razionalizzazione dei contratti di lavoro, l’individuare tra le soluzioni l’accorpamento provinciale, interprovinciale o addirittura interregionale tra segreterie della stesa categoria dello stesso settore potrebbe non essere l’unica risposta. Immaginare all’interno della stessa categoria processi di regionalizzazione, legato ai livelli contrattuali, caso mai procedendo a step, così che la diminuzione dei centri di costi, più che di quelli di responsabilità politica, possano rispondere ad una politica di razionalizzazione e risparmio. Ovvero immaginare dipartimenti che raccolgano responsabilità e attività collaterali. Di Vittorio, come abbiamo visto nel breve filmato, ci ha raccontato di un sogno “.. vedere un giorno i braccianti del sud e gli operai del nord, camminare fianco a fianco, lottare per gli stessi diritti…”. Se questo sogno in parte si è realizzato per i lavoratori italiani, perché non immaginarlo anche per il sindacato, per la CGIL. Perché fare sindacato al sud deve essere cosa diversa, sul piano del diritto e perché no anche sul piano del dovere, dal fare sindacato al nord? Ripensare il modo di stare sul territorio, non significa nel piccolo recinto, più o meno protetto, bensì come il sindacato si riposiziona su tutto il territorio nazionale. Un progetto di riorganizzazione deve interessare l’intera CGIL e non parte di essa. Qualsiasi progetto che non coinvolge l’intera organizzazione è un progetto monco, incompleto. Che senso ha oggi, nell’era della globalizzazione continuare ad avere tante realtà organizzative per quante Camere del Lavoro esistono in Italia. E che senso ha avere nella stessa Camera del Lavoro categorie talmente differenti come differente è quello di cui si occupano. Spesso riesce difficile anche a chi si rivolge alle nostre strutture capire come siamo organizzati. Anche questo è un limite, chi non ci conosce, o nel conoscerci, nel non capire il nostro modello organizzativo spesso non si fidelizza alla nostra organizzazione. Verrebbe da pensare che forse i primi a non conoscerci siamo proprio noi. L’esperienza che stiamo facendo con il Bilancio Sociale intende rispondere a questo: RENDERSI CONTO PER RENDERE CONTO! Se si adottano modelli organizzativi, gestionali, tesi ad innovare processi e a razionalizzare costi è indispensabile che tutti si adeguino a tali scelte, una scelta che non può essere condizionata dalle volontà delle parti, ma deve essere vincolante. Il “ … sono il segretario e faccio quello che voglio” spesso si confonde con la vera autonomia politica. Autonomia politica significa “… all’interno delle scelte strategiche dell’organizzazione sviluppo un’iniziativa politica, organizzativa, tesa a migliorare quanto indicato dall’organizzazione stessa”. Nessuno ha la ricetta salvifica, ma se ognuno va per la propria strada sarà ancora più difficile trovarne una che vada bene per tutti. Anche alcuni aspetti del nostro dibattito congressuale, quando si usa una dialettica di separatezza, quando si usa il voi e il noi, è un chiaro segnale che la democrazia, la libertà, l’autonomia di cui ogni quadro dirigente è custode e interprete è gestita nel peggiore dei modi. I primi ad evidenziarcelo sono i lavoratori, i nostri iscritti. Mentre bisogna sapere che è in quel quadrato rosso che c’è la parola libertà! Quel “Futuro” contenuto nello slogan della FILLEA e in quello della CGIL è una speranza che ogni dirigente deve saper cogliere. La politica con l’aiuto dei soggetti sociali e civili di questo paese dovrà tracciare il futuro per il paese Italia, a noi tocca tracciare, in questo momento di crisi, un progetto di rilancio della CGIL, avendo la consapevolezza del nostro ruolo e della nostra responsabilità. Per dirla alla Di Vittorio: “… Quando si ha la piena consapevolezza di servire una grande causa, una causa giusta, ognuno può dire alla propria donna, ai propri figliuoli, affermare di fronte alla società, di avere compiuto il proprio dovere. Buon lavoro, a tutti noi compagni.” GRAZIE.

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