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19.03.14 Si è concluso il 26 febbraio 2014 il Congresso territoriale della Fillea Vicenza. Di seguito la relazione del segretario uscente Danilo Andriollo, riconfermato alla guida della struttura dal nuovo direttivo eletto al termine del congresso.
Care delegate e delegati, gentili ospiti, nei giorni scorsi sono apparsi i risultati di numerose ricerche che dipingono un quadro molto fosco e preoccupante della realtà del nostro paese. Un dato che colpisce, ma che non suscita ancora sufficiente scandalo e ribellione nei mezzi di comunicazione, è quello relativo alla povertà, che riguarda i singoli e le famiglie. E' il caso di parlarne, perché descrive meglio di altri, sui quali potremo comunque tornare, la situazione con la quale ci dobbiamo confrontare quotidianamente. Ogni giorno ci misuriamo con drammi sociali e personali; spesso ci sentiamo incapaci o impotenti a fornire risposte. Cosa puoi dire ad un padre che afferma, disperato, che non può più iscrivere il figlio o la figlia all'Università, perché a casa in Cassa Integrazione e unico portatore di reddito in famiglia? Quando parliamo di questi drammi ci dicono che facciamo retorica. No, non è retorica. Ognuno di noi, sindacalisti della Fillea, si è trovato davanti un lavoratore in queste, o analoghe, condizioni, in questi anni di crisi, provocata dalle ingiustizie e da una distribuzione dei redditi e delle ricchezze inaccettabile. Se guardiamo ai dati delle famiglie vediamo che dal 2008, anno d'inizio della crisi, i redditi sono diminuiti del 3,5%. Sono povere, le famiglie italiane: solo il 3% può dirsi al sicuro, contro un 47% che vive in condizioni di vulnerabilità e un 50% che fa i conti con periodiche difficoltà finanziarie. In termini reali, cioè di capacità di spesa, tra aumento della tassazione e dinamica dei prezzi, nel loro portafoglio mancano quasi 3.000 euro. Per fare la spesa, per curarsi, per investire sul futuro dei figli. Dopo oltre mezzo secolo, in Italia ritorna la povertà alimentare. La spesa media nel 2012 è diminuita del 2,8% sull'anno precedente; c'è un profondo cambio delle abitudini d'acquisto, aumentano le famiglie che scelgono i discount a scapito dei negozi tradizionali. Diminuisce la spesa destinata ai beni d'uso e quella per cinema, teatro, giornali, libri, insieme a quella destinata alla cura e alla salute. In soli due anni è aumentata di quasi dieci punti la percentuale di coloro che non possono permettersi un pasto proteico al giorno e non possono riscaldare adeguatamente l'abitazione. Ci hanno detto in questi anni che la crisi è mondiale e che la dobbiamo subire; c'è stato perfino chi, pur avendo decisive responsabilità politiche, ci ha voluto prendere in giro ripetendo il refrain secondo il quale la crisi non c'era, perché le pizzerie da lui frequentate erano piene. La crisi è mondiale, è vero, ma per le famiglie non è andata dovunque alla stessa maniera. Mentre in Italia il Prodotto Interno Lordo e i redditi delle famiglie diminuivano rispettivamente del 5 e del 3%, in Francia il PIL calava del 3, ma i redditi familiari crescevano del 2%; in Germania e negli Stati Uniti il PIL a meno 4% e i redditi delle famiglie a + 0,5. Mentre in Italia, anche nel 2012 le famiglie vedevano diminuire le loro entrate, in Germania, Francia e Inghilterra queste aumentavano. Potremmo citare molti altri dati per descrivere il differenziale tra Italia e altri Paesi. Siamo indietro, in Europa e nel mondo. Non volendo tediare, vale la pena richiamare i settori nei quali le politiche di questi anni ci hanno fatto arretrare: dall'innovazione tecnologica ai salari, dalla ricerca alla scuola (anche nei punti d'eccellenza e che il resto del mondo veniva a prendere ad esempio), dalle condizioni di lavoro alla salute. Abbiamo, certo, anche qualche primato: quello della disoccupazione giovanile, ad esempio. I dati europei ci vedono in testa alla classifica di coloro che non riescono a garantire, neppure a far intravedere, un futuro lavorativo ai nostri giovani. Abbiamo anche un altro primato, in questo caso paradossale: con la disoccupazione a quasi il 13% il nostro orario di lavoro è mediamente il più elevato dei paesi europei più avanzati. La Commissione Europea dichiara che un lavoratore europeo ha lavorato in media l'89% di ore di un lavoratore italiano. Se guardiamo a Francia e Germania scopriamo che un francese lavora l'84,5% e un tedesco il 79% di quanto noi lavoriamo. Se noi portassimo l'orario italiano alla media europea, dovremmo far crescere l'occupazione del 12,54%. E di più se volessimo fare come in Francia e Germania. A questo proposito è il caso di segnalare che i nostri documenti congressuali non danno il peso dovuto alla riduzione di orario di lavoro come via per dare lavoro ai giovani e a coloro che lo perdono, per creare e distribuire lavoro. E' il caso di segnalare queste carenze e chiedere alla nostra organizzazione di porvi rimedio e di prendere in mano la bandiera della riduzione dell'orario di lavoro. Le responsabilità della crisi La situazione sommariamente descritta, come ben sappiamo, non è frutto del caso. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare, soprattutto noi vicentini e veneti, che la gravità della crisi che ci coinvolge ha dei responsabili ben identificati. Sono i governi che si sono succeduti negli ultimi 20 anni, a livello nazionale e regionale, escluse brevi parentesi, che ci hanno portato ad aggravare le conseguenze di una crisi che, certo non ha colpito solo noi. Ma l'Italia, proprio a seguito di ciò che si è fatto o a quello che non si è voluto fare, è oggi fanalino di coda in Europa per molti aspetti. Non possiamo dimenticare che il sistema politico che ha dominato la scena nazionale e veneta in questi anni, oltre a non aver risolto nessun problema della nostra economia e non aver mantenuto nessun impegno (anche quando sottoscritto davanti alle telecamere, con i cittadini lontani, sullo sfondo, secondo lo stile propagandistico e populistico), hanno portato ad un aumento della corruzione, dell'evasione fiscale, dell'illegalità (non quella piccola, fatta di furterelli o piccolo spaccio, ma quella gigantesca, che gira miliardi e implica coinvolgimento di personaggi con compiti di gestione di gangli fondamentali dello stato. E' di questi giorni l'arresto del segretario generale di Palazzo Chigi. E sappiamo che il nostro settore è tra quelli più coinvolti nelle degenerazioni del sistema economico e politico. Pensiamo a ciò che è accaduto a L'Aquila, nel sistema di corruzione messo in opera nella gestione degli appalti, grazie anche alla figura del Commissario straordinario, dotato di poteri pressoché assoluti, anche in deroga, e a volte contro le leggi di tutela del suolo e di regolarità degli appalti. Sappiamo che anche un'impresa vicentina è stata protagonista del sistema corruttivo, e vogliamo qui dire che abbiamo accolto con favore le dichiarazioni del Presidente di Confindustria vicentina il quale ha affermato che non si possono giustificare azioni illegali e richiamato al rispetto delle leggi, a fronte di una campagna di stampa che tentava di far passare il titolare della Steda come vittima, quando aveva invece svolto un ruolo di protagonista nel sistema corruttivo. Se è vero che la crisi nella quale siamo immersi rappresenta in qualche modo la conclusione di un ciclo economico e politico che inizia molti anni fa (il punto di svolta, come ci è stato più volte ricordato, risale agli anni '80, quando Thatcher in Inghilterra e Reagan negli Stati Uniti avviano il ciclo neoliberista) è pur vero che nel nostro Paese la degenerazione è stata di gran lunga superiore a quella degli altri paesi europei. L'Italia più degli altri ha accettato, subìto, applicato alla lettera la ricetta dettata dalla cosiddetta Troica (Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea, Commissione Europea), basata sulla riduzione delle protezioni sociali, tagli violenti della spesa pubblica, privatizzazioni e svendite di patrimonio pubblico (anche di beni culturali e di valore storico artistico incomparabile, a dimostrazione dell'ignoranza e della volgarità che ha caratterizzato coloro che ci hanno governato), la riduzione dei salari e dei diritti di chi lavora. Come scrive bene Luciano Gallino nei suoi libri, compreso l'ultimo, dal titolo emblematico “Il colpo di stato di banche e governi”, che ha come sottotitolo “l'attacco alla democrazia in Europa”, siamo stati di fronte, in questi anni, a scelte che, volutamente, hanno privilegiato la finanza all'economia reale, la speculazione alla produzione e al lavoro. Cito dal suo libro: “La crisi esplosa nel 2007-2008 è stata sovente rappresentata come un fenomeno naturale, improvviso quanto imprevedibile: uno tsunami, un terremoto, una spaventosa eruzione vulcanica. Oppure come un incidente tecnico capitato fortuitamente a un sistema, quello finanziario, che funzionava perfettamente. In realtà la crisi che stiamo attraversando non ha niente di naturale o di accidentale. E' stata il risultato di una risposta sbagliata, in sé di ordine finanziario ma fondata su un larga piattaforma legislativa, che la politica ha dato al rallentamento dell'economia reale che era in corso per ragioni strutturali da un lungo periodo”. E il resto del libro argomenta e spiega perché ha quel titolo. Gallino non dimentica che all'origine della crisi finanziaria c'è l'esplosione della bolla immobiliare negli Stati Uniti. L'ingiustizia economica e sociale L'impoverimento dei cittadini e delle famiglie richiamato all'inizio, quindi, non è stato una conseguenza del fato maligno, ma di scelte compiute consapevolmente, che hanno portato, a livello mondiale e nel nostro Paese, ad un aumento assurdo ed offensivo delle disuguaglianze. Ed è stata la vera causa scatenante la crisi. La crisi nasce dalle ingiustizie e da una distribuzione del reddito che ha trasferito nel tempo ricchezza da salari e pensioni a profitti e rendite. E' di circa un mese fa il rapporto di Oxfam (organizzazione umanitaria che opera a sostegno delle popolazioni in pericolo, vittime di calamità naturali o conflitti armati, fondata in Italia nel 1992 con il sostegno delle organizzazioni sindacali) che descrive, conti alla mano, un quadro di ineguaglianza mondiale terrificante. La metà della popolazione più povera, circa 3,5 miliardi di persone, ha un reddito annuale pari a quello degli 85 uomini più ricchi del pianeta. Oxfam dichiara: “L'estrema disuguaglianza tra ricchi e poveri implica un progressivo indebolimento dei processi democratici ad opera dei ceti più abbienti, che piegano la politica ai loro interessi a spese della stragrande maggioranza”. In qualche assemblea congressuale, commentando questo dato, dicevamo che non potremo sorprenderci o lamentarci se un giorno questi tre miliardi, che sono sparsi in tutti i paesi del globo, si ribelleranno e faranno a pezzi gli 85 e chi sta loro attorno. Se nel modo la situazione è devastante, anche in Italia le disuguaglianze enormi e la distribuzione della ricchezza è estremamente squilibrata, se il 10% delle famiglie più ricche possiede il 46% della ricchezza totale, fatta di immobili, aziende oggetti di valore, depositi, titoli di stato, azioni ecc.. Significa che, in media, considerando 10 famiglie, la famiglia più ricca possiede quasi la metà della ricchezza complessiva; le altre nove si spartiscono l'altra metà. Di fronte a questi dati, comprendiamo bene come sia necessario compiere scelte, sul piano politico e sociale, che vadano in controtendenza, che non rispondano più alle logiche del mercato e della finanza, ma partano dai bisogni delle persone in carne ed ossa, di lavoratrici, lavoratori e pensionati. Sta aumentando il numero di economisti che vedono nella redistribuzione del reddito e nell'aumento della capacità di spesa dei meno abbienti uno dei modi per uscire dalla crisi o almeno ridurne l'impatto. Problemi di questa natura si devono affrontare a partire da ogni realtà ed ogni Paese, ma per trovare soluzioni durature richiedono una risposta a dimensione globale, sviluppando un'idea generale, in base alla quale affrontare poi le politiche locali. Il bisogno di un'altra Europa Abbiamo visto la misera fine che hanno fatto le pulsioni localistiche ed esclusive che hanno attraversato la nostra società negli anni scorsi, alle quali una parte dei nostri concittadini è ancora legata. Non hanno portato a soluzione nessuno dei problemi che le forze localiste e razziste avevano denunciato e che avevano assicurato loro consenso, anzi, molti problemi sono stati aggravati. Se il mercato e la finanza sono globali, solo interventi con respiro globale, anche se assunti a livello nazionale, possono tentare di porre rimedio alle clamorose ingiustizie presenti. Per questo dobbiamo cogliere le opportunità che ci si presentano su scala più ampia di quella nazionale, oltre che dare il nostro contributo a compiere le scelte giuste nel nostro Paese. Per questo è necessario imprimere un'accelerazione alla costituzione di un sindacato europeo che definisca programmi di sviluppo e promuova conseguenti iniziative di lotta a sostegno sul piano continentale. Non è più sufficiente la manifestazione che di anno in anno promuove la Confederazione Europea dei Sindacati, una sorta di atto dovuto, ma senza conseguenze e risvolti sul piano delle politiche della Comunità europea e dei Governi nazionali. A maggio andremo a votare per il rinnovo del Parlamento europeo. Avremo la possibilità di scegliere. Abbiamo non solo il diritto di votare (non dimentichiamo mai che questo diritto è frutto di lotte, rivoluzioni, guerre di liberazione, sofferenze e sacrifici delle generazioni che ci hanno preceduto), ma anche il dovere di dare il nostro contributo per cambiare. In campo ci sono idee diverse di Europa, anche se sappiamo che le grandi forze politiche hanno sposato o sono state succubi dell'ideologia neoliberista e delle scelte economiche e sociali conseguenti. Ciò ha portato ad un aggravamento della crisi ed all'impossibilità di uscirne; ha peggiorato le condizioni di lavoro, di reddito, di vita di donne e uomini di quello che viene chiamato il vecchio continente. Per questo è necessario rompere lo schema che ha guidato le scelte di politica economica in Europa negli ultimi decenni. E' ciò che possiamo fare evitando di scegliere coloro che propongono nuovamente l'illusione e la chiusura localistiche (per semplificare fuori dall'euro e ognuno a casa propria, anche se, certo, sull'euro c'è da discutere) per rivolgerci a chi pensa ad un'Europa dei popoli e dei cittadini che si uniscono e scelgono di impegnarsi per un'altra Europa. Non quella della Troika, del mercato e della finanza ma quella di chi chiede l'immediata fine dell’austerità e un New Deal europeo per finanziare un programma di ricostruzione economica per creare lavoro; di chi pensa che la Banca Centrale Europea debba seguire l’esempio delle banche centrali degli altri paesi e fornire prestiti a basso interesse alle banche solo se queste accettano di dare credito con bassi tassi di interesse alle piccole e medie imprese; di chi punta a sconfiggere la disoccupazione, alla sospensione del nuovo sistema fiscale (il cosiddetto fiscal compact) europeo per consentire una politica che permetta di finanziare gli investimenti pubblici. Una nuova e diversa Europa può rappresentare una speranza. In Italia, come dicevamo, la situazione è peggiore e più grave che altrove: alla crisi economica e sociale si accompagnano le cadute sul piano culturale (pensate alla costante riduzione degli investimenti sulla scuola e l'Università), sul piano civile, morale, frutto delle scelte e dei comportamenti di un personale politico, quello degli ultimi vent'anni, che è tra i più squalificati d'Europa, salvo lodevoli eccezioni, che ci sono, per fortuna. Se in Germania un ministro si dimette perché ha copiato la tesi di laurea, in Italia un ex presidente del Consiglio non si dimette neppure dopo una condanna definitiva, e, anzi, trova il modo di farsi riabilitare e presentarsi come colui che partecipa alla definizione delle leggi che regolano la partecipazione democratica e alle consultazioni per la formazione del Governo. Ma, come dicevo, non tutte e tutti sono così: c'è stata una ministra che si è dimessa, giustamente, per un'elusione fiscale. I comportamenti negativi di chi ci ha rappresentato in questi anni hanno corrotto nel profondo il pensiero e la cultura di molte, troppe, persone, inquinando nel profondo i rapporti personali e sociali, facendo prevalere arroganza, prepotenza e populismo sul ragionamento, il confronto di idee, la volontà di costruire un paese più civile. Una politica per il lavoro L'ho fatta lunga, per questa prima parte. Spero mi scuserete, ma ritengo di grande importanza le questioni fin qui trattate. E penso che abbiamo sbagliato, come sindacato, a non discuterne di più e più approfonditamente con i lavoratori, in questi anni. E che anche questa nostra rinuncia ha contribuito, insieme alle divisioni sindacali, da noi mai cercate, a far passare risposte inadeguate alla degenerazione della vita sociale e politica. In questi giorni è stato votato dalle camere il nuovo Governo del nostro Paese. Siamo di fronte a scelte tattiche, a scontri tra schieramenti, a molte parole e pochi programmi chiari. Ma i contenuti delle politiche economiche continuano ad essere dettati dall'esterno. Cambierà qualcosa? Vedremo dai programmi e dalle scelte che verranno operate. Se il buon giorno si vede dal mattino, il modo in cui si è scelto di cambiare il presidente del Consiglio (sul quale, certo, noi non possiamo esprimere un giudizio particolarmente favorevole, viste le scelte fatte) non è stato tra i più chiari e trasparenti, anche se in diretta streaming. Se il Comitato Direttivo che verrà eletto lo riterrà utile, sarò ben felice di continuare ad assumere la responsabilità della categoria nel prossimo periodo. E per noi le valutazioni si faranno a partire da ciò che si prevederà sul lavoro e la sua creazione, vera emergenza del Paese, e non un lavoro qualsiasi, perché, come diciamo da tempo, anche il lavoro deve cambiare. Da quello che distrugge ambiente e territorio a quello che recupera, riusa, salvaguarda il territorio, come propone la Fillea nazionale. Conterà ciò che si dirà sui diritti del lavoro e dal fatto che si ritorni sull'estensione delle tutele e sulla riduzione delle troppe forme di lavoro, sulla legge sulla rappresentanza, sul salario dei lavoratori e sulla possibilità di introdurre un salario minimo, sociale o di cittadinanza, sulla giustizia fiscale e la ricostruzione di uno stato sociale che assicuri ai cittadini la cura della salute, il diritto a muoversi e alla conoscenza e cultura, il diritto ad una pensione che garantisca una vecchiaia serena e dignitosa. Dignità è una parola che spesso si è sentita evocare da lavoratrici e lavoratori colpiti da crisi aziendali, delocalizzazioni, riduzione di personale. Il lavoro viene riconosciuto come fonte non solo di reddito, ma di dignità, appunto. Dovremo tentare di riprendere in mano la lotta per la dignità del lavoro, soprattutto noi che operiamo in un settore che in questi anni ha subito una devastazione sul piano della quantità di occupati e della progressiva svalorizzazione del lavoro che viene svolto. Le nostre richieste sono illustrate in modo articolato e preciso nei nostri documenti congressuali, in particolare nel documento di maggioranza, che nella nostra categoria ha ricevuto quasi il 98% dei consensi. Il nostro Congresso Abbiamo tenuto 54 assemblee, tra quelle di azienda e quelle territoriali. Hanno partecipato e votato 1212 lavoratori e lavoratrici iscritti. Il 98% si è espresso a favore del documento che ha come prima firmataria Susanna Camusso. La discussione ha risentito, com'era prevedibile, delle diverse situazioni aziendali. Nelle aziende in crisi e difficoltà è stato inevitabile e giusto discutere innanzitutto di questo. In ogni caso, possiamo dire che la maggior parte dei lavoratori occupati nelle aziende e imprese dove abbiamo iscritti ha saputo che la CGIL va a congresso e ha potuto, volendo, partecipare al dibattito. Nelle nostre assemblee si è discusso in particolare su alcuni aspetti, e in qualche realtà gli iscritti hanno votato alcuni emendamenti al documento di maggioranza, in particolare quelli relativi alle pensioni, al salario minimo e all'acqua. Si è voluto cioè segnalare che i lavoratori edili vogliono rivedere la controriforma (permettete anche qui un inciso: è sempre il caso di ricordare che mentre negli anni '70 e '80 del secolo scorso quando si parlava di riforme si pensava ad un miglioramento della condizioni di chi lavora, nell'ultimo ventennio riforma ha significato invece peggiorare queste condizioni) del Governo liberista Monti-Fornero. Ricordo che questo giudizio su quel Governo noi lo esprimevamo anche quando era in carica; non abbiamo aspettato che se ne andasse. Per quanto riguarda le pensioni, ricorderete che noi abbiamo organizzato un incontro con la stampa, a fine 2011, per dire no alle modifiche introdotte dalla ministra Fornero, e per questo oggi diciamo che bisogna rivederle, in particolare sulla vergognosa penalizzazione, che colpisce in particolare chi ha iniziato a lavorare giovanissimo e si è trovato, nell'arco della sua vita lavorativa, a beneficiare dell'indennità di disoccupazione o a casa in Cassa Integrazione Straordinaria. Forse costoro, i cosiddetti precoci, pagano il fatto di essere stati parte di una generazione di lavoratori che negli anni '70 del 900 hanno avuto il coraggio di lottare per migliorare le loro condizioni. Nel 2011 è stata consumata una sorta di vendetta postuma, e il sindacato ha reagito con sole tre ore di sciopero, come ricordiamo. Confermiamo inoltre alla segretaria generale della CGIL tutto il nostro sostegno, se ripeterà al Governo e al nuovo ministro del lavoro che “40 è un numero magico”. Nelle assemblee, spesso, a fronte dell'esposizione delle nostre richieste, ci è stato detto che i governi ed i padroni ci dicono che soldi non ce ne sono più. Non è vero, ed è il caso di ricordare il 10 e 46% richiamato all'inizio. E che, nel 1974 in Italia il sistema fiscale prevedeva 34 aliquote Irpef. La più bassa, per coloro che avevano un reddito fino a 2 milioni di lire, era del 10%; la più alta, per un reddito superiore a 500 milioni di lire, al 72%. Il punto di svolta avviene 10 anni dopo, quando gli scaglioni si riducono a 9: l'aliquota più bassa viene elevata di 8 punti, quella più alta si abbassa al 65%. Gli anni 90, quelli della propaganda sulle troppe tasse (anche molti di noi ci hanno creduto) hanno portato a continue modifiche, fino agli ultimi interventi del 2005, che hanno stabilito che i redditi più bassi, fino a 15.000 €, pagano il 23% di imposte, quelli più alti, oltre i 75.000 il 43%. In 40 anni, quindi, le aliquote dei redditi più bassi si sono alzate del 13%, quelle più alte si sono abbassate del 39%. Torniamo alla distribuzione del reddito, fonte di ingiustizia e concausa della crisi. Per questo noi sosteniamo che la voce del sindacato si dovrà far sentire forte anche per richiedere l'introduzione di una tassa patrimoniale sulle ricchezze e i patrimoni, mobiliari e immobiliari. Il prof. Nicola Cacace ha calcolato che un contributo dello 0'5% del patrimonio del 10% delle famiglie più ricche, quelle da 2 milioni di patrimonio in su, darebbe 20 miliardi di entrate e costerebbe una media di 8 mila euro a ciascuna delle famiglie più fortunate. E aggiunge: “nessuno fallirebbe... e l'Italia avrebbe qualche possibilità di uscire dal buco nero della crisi”. A quel 10% più ricco, non potremmo chiedere, per qualche anno, di contribuire con un 1% (16.000 € l'anno su oltre 2 milioni) per assicurare 40 miliardi di euro per rilanciare l'economia e ridurre il debito? Ma forse, per costoro e chi ci governa, questo è chiedere troppo. Ripristinare una reale progressività delle aliquote fiscali significherebbe semplicemente applicare la Costituzione, che la prevede all'art. 53. La nostra Costituzione è frequentemente colpita o disattesa; la nostra democrazia è frequentemente sotto tensione. Il metodo spiccio che spesso viene usato quando si affrontano tematiche delicate, pensiamo alla legge elettorale in questi giorni, a volte lascia esterrefatti. Se passasse così come definita, potrebbe accadere, come avvenuto di recente in Sardegna, che una candidata che riceve 700 mila voti in quella Regione non ha la possibilità di entrare in Consiglio Regionale. Come sorprenderci del calo di votanti se i cittadini non si sentono rappresentati nelle istituzioni? Una cosa colpisce in queste settimane. Che su queste questioni, delicate per il futuro della nostra democrazia, la voce del sindacato, della CGIL, sia stata piuttosto flebile. Nei giorni scorsi c'è stata una presa di posizione della nostra organizzazione nazionale, ma non ha avuto la dovuta risonanza. Anche su questi temi non sono sufficienti, quando ci sono, le dichiarazioni dei segretari generali. E' necessario il coinvolgimento delle lavoratrici e dei lavoratori. Sui temi inerenti la democrazia, nei luoghi di lavoro e nel paese, a partire dai luoghi di lavoro per assicurare democrazia nel paese, e su quelli relativi alla civiltà di un Paese, parlano le nostre tesi. La crisi e il settore delle costruzioni La crisi, che ha avuto pesanti ripercussioni sull'intero nostro tessuto economico e sociale (non dimentichiamo che il Veneto è la Regione del nord con i risultati più negativi, nonostante la propaganda del presidente della Giunta regionale - Governatore, come viene chiamato, mutuando un linguaggio inappropriato, non è scritto da nessuna parte - che sa solo scaricare le responsabilità su altri, dal Governo, all'Europa all'Onu) ha devastato il nostro settore: l'intera filiera delle costruzioni ha subito una moria di imprese e un calo di produzione e occupazione. La devastazione economica è data dai numeri: a livello nazionale, l'Ance dichiara che dall'inizio della crisi nel settore edile sono stati persi oltre 446 mila posti di lavoro; circa 700 mila con i settori collegati. Se guardiamo agli iscritti in Cassa Edile, industria e artigiana in provincia di Vicenza, passiamo da 9900 iscritti, complessivamente, nel 2008, ai 5.800 di fine anno edile 2013. Questo nel settore edile, l'anello iniziale della catena produttiva delle costruzioni: la fine della catena, i mobili, l'arredamento, hanno visto un andamento analogo. La devastazione sociale è “descritta” dalle vicende sempre più drammatiche che vivono i lavoratori, che in questi anni hanno subito CIG, CIGS, disoccupazione; molti, tra costoro, tra qualche mese si ritroveranno senza lavoro e senza ammortizzatori sociali. Una bomba che esploderà e provocherà danni, se non si introdurranno ammortizzatori che assicurino la sopravvivenza. Contratti di solidarietà e riduzione di orario per non licenziare e per dividere il lavoro che c'è. Ma, soprattutto, è necessario creare lavoro. Questa è la scommessa, per chi ci governa, per le imprese e per noi. Il protrarsi della crisi sta portando alla perdita di speranza e all'incapacità e impossibilità di vedere un futuro. Ciò potrebbe provocare un ulteriore diffusione di drammi umani che portano, nei casi più esasperati, al suicidio, di lavoratori e di imprenditori, come abbiamo visto anche di recente. L'impoverimento dei lavoratori rende inoltre ancor più inaccettabili i costi crescenti dei servizi sanitari e sociali: è necessario affermare: basta tagli, ma, invece, investimenti nella sanità pubblica, nei servizi sociali, nella scuola (pensate: recuperare vecchie scuole dismesse; ristrutturare vecchi palazzi pubblici, anziché venderli, per assicurare la possibilità di portare all'asilo nido o alla scuola materna pubblica i bambini che oggi non trovano posto). Il nostro settore ha pagato le conseguenze di scelte irresponsabili. Si è costruito troppo e male; si sono realizzate opere inutili e dannose, servite spesso per compiere corruzione e distribuire denaro pubblico (cioè di tutti, non dimentichiamolo) illecitamente, più che a realizzare lavori che servissero ai cittadini, come ha dimostrato più volte la magistratura. Si è devastato e distrutto il territorio. Le alluvioni che periodicamente destano allarme o provocano distruzione e morte, ci richiamano alla necessità, anche qui, di dire basta. Gli anni del boom immobiliare non sono stati utilizzati per rafforzare economicamente e capitalizzare le imprese, se non in rare occasioni, ma per speculazioni finanziarie e immobiliari, che hanno poi aggravato la situazione delle imprese. La catena del subappalto ha destrutturato il settore creando lavoro nero e irregolare, incentivando la nascita di pseudo imprese individuali, lavori a partita IVA, e realizzando opere, costruzioni e abitazioni che cedono o deperiscono in tempi molto più rapidi di quelli preventivati al momento della progettazione. La destrutturazione del settore ha permesso inoltre l'infiltrazione malavitosa, anche dalle nostre parti, dove pure, al momento, non sono emersi i casi clamorosi che abbiamo visto altrove. La Direzione Distrettuale Antimafia segnala, nella sua relazione annuale, che nel territorio tra Verona e Vicenza c'è la presenza, non appariscente, ma spesso “operativa”, di persone provenienti da zone ad alta intensità mafiosa e collegate alle varie famiglie e clan, che vengono qui per investire in edilizia e lavori pubblici i proventi di attività illecite. La devastazione del settore comporta inoltre un calo di attenzione alla sicurezza sul lavoro. I dati forniti dai servizi delle ULSS ci indicano in calo gli infortuni sul lavoro, nel nostro settore. Ma viene giustamente ammesso che ciò è dovuto anche alla diminuzione delle ore lavorate e della presenza in cantiere. Gli infortuni gravi o mortali accaduti negli ultimi tempi vedono sempre più spesso come vittime artigiani o lavoratori autonomi o partite IVA, a seguito della parcellizzazione del ciclo produttivo e dell'uso improprio di questi pseudo lavoratori autonomi fatto dalle imprese. La crisi del settore delle costruzioni è paradigmatica della crisi di un sistema. Siamo al paradosso per cui da un lato aumentano gli sfratti e coloro che perdono l'abitazione, dall'altro ci sono migliaia e migliaia di appartamenti sfitti. E qualcuno ha la spudoratezza di alzare la voce quando gruppi di senza casa vanno ad occupare qualche palazzo sfitto e disabitato. La crisi del nostro settore ci richiama anche alla necessità di cambiare rotta, invertire la tendenza. La Fillea nazionale ha avanzato proposte precise e dettagliate a questo proposito, mi limito ad enunciarne i titoli: dal riassetto idrogeologico al consumo di suolo zero, dalla riqualificazione urbana all'efficienza energetica, dalle energie rinnovabili alla prevenzione sismica alle infrastrutture immateriali. Le proposte descrivono in dettaglio come intervenire, la quantità di risorse necessarie, come reperirle e quanti posti di lavoro si potrebbero realizzare. Riguardo a questo ultimo aspetto, per noi fondamentale, la Fillea nazionale prevede la creazione, a regime, di oltre un milione di posti di lavoro; più di 600 mila nel nostro settore. Questo richiede un cambiamento di scelte, strategie, impostazioni, che non pare di intravedere nelle scelte di questo governo, della nostra regione e, spesso, dei nostri comuni. Gli stessi imprenditori, compresi quelli locali, se pure a parole dichiarano che non possiamo andare avanti così ed è necessario cambiare direzione, nei fatti accolgono favorevolmente tutte le proposte che vengono avanzate, comprese quelle viarie, anche quando queste provocano ulteriore distruzione di territorio ed è dubbia la loro utilità. Qualche contraddizione ce l'abbiamo anche noi, come CGIL, quando la segreteria nazionale dichiara che i lavori della TAV devono proseguire perché c'è stato il pronunciamento di un precedente congresso. Non sarebbe meglio, in questo ed in altri casi, una “verifica della effettiva strategicità delle opere e la riduzione del numero delle stesse in funzione della loro importanza e delle risorse effettivamente disponibili”, come si dice nelle nostre tesi congressuali? Ma guardando a situazioni più vicine a noi. Lascia esterrefatti che, per ovviare ad un tappo viario, quello di Carpanè, all'inizio della Valsugana, si voglia realizzare un'autostrada di 27 chilometri, di cui 12 in galleria sotto il massiccio del Grappa. Così come lascia perplessi che quando si è deciso di dare avvio e finanziare la Pedemontana veneta, la motivazione più forte sia stata che l'opera era stata pensata 40 anni fa. Ma se nel frattempo sono cambiate totalmente le condizioni? Noi stessi, a volte, badiamo poco alla necessità e qualità dell'opera, purché crei lavoro. Probabilmente ha ragione chi sostiene che si rende necessaria una moratoria nella realizzazione delle grandi opere, per verificarne l'effettiva utilità e sostenibilità, ambientale ed economica. C'è chi dice: ma così non lavora più nessuno. Non è detto che debba essere per forza così, se intanto si avviano i lavori che la Fillea propone, e che sono rapidamente cantierabili. Inoltre, si potrebbe lanciare una campagna straordinaria di riqualificazione dei lavoratori del nostro settore, per adeguare le professionalità al recupero, restauro, riuso, efficientamento energetico, riassetto del territorio. Abbiamo una scuola edile eccellente, a Vicenza, che saprebbe sicuramente proporre un progetto di formazione di massa per la riqualificazione di operai e impiegati edili, del lavoro, delle imprese. Magari riprendendo l'uso delle 150 ore, previste dal nostro contratto. Purtroppo è prevedibile che simili ipotesi non saranno prese in considerazione, in particolare dal propagandista veneto, il presidente della Giunta regionale, che predica il consumo di suolo zero, ma pratica la predisposizione di strumenti urbanistici (il PTRC e il Piano Casa) che permettono di avviare nuove realizzazioni e ampliare l'esistente senza attenzione alcuna all'ulteriore impermeabilizzazione del territorio ciò comporta. Per predisporsi, poi, a chiedere soldi a Roma quando frane e alluvioni metteranno in ginocchio parti del territorio vicentino e veneto. Una politica attenta all'ambiente, al territorio e alla città Da noi e in buona parte del Paese, negli ultimi anni è nata e cresciuta una nuova consapevolezza di quanto sia necessario salvaguardare il territorio, la natura, il paesaggio, la biosfera, come dice chi ne sa più di noi. Sempre più numerosi sono i cittadini che guardano con occhio critico o si oppongono a nuove grandi opere, soprattutto se risulta evidente il loro carattere speculativo e suscita molti dubbi la loro utilità. Noi dovremo prestare maggiore attenzione a queste voci e, in futuro, cercare rapporti e relazioni, per comprendere bene le ragioni che portano ad alcune opposizioni. Non possiamo liquidare le protese banalizzando, oppure pensare che queste danno fastidio perché mettono in dubbio lavori che creano occupazione nel settore. Fare bene il nostro lavoro significa svolgere la contrattazione d'anticipo, come abbiamo fatto e faremo, contrattare il miglioramento delle condizioni di chi lavora alle grandi opere, ma ciò non ci esime dall'interrogarci se tutto ciò che viene approvato e progettato ha un senso e una sostenibilità, ambientale, innanzitutto, ed economica. Sappiamo, inoltre, che la Corte dei Conti ha recentemente messo sotto accusa la finanza di progetto per i costi che questo strumento scarica sul bilancio dello Stato, delle Regioni e degli Enti coinvolti per decenni, costi che diventano esorbitanti rispetto a quanto rischia il privato che progetta e realizza l'opera. Ospedali e strade non dovrebbero mai essere private, visto che assicurano la cura e la mobilità delle persone. Per dare gambe e respiro alle proposte della Fillea nazionale dovremo riprendere una nostra specifica iniziativa, meglio se condivisa unitariamente, per riportare al centro dell'attenzione dei cittadini e degli amministratori la necessità di ripartire dalle urgenze e dai bisogni del territorio e dei cittadini, per una ripersa del settore. Se guardiamo le nostre città, è del tutto evidente che, più che costruire un nuovo stadio, allargare tante villette o costruirne di nuove entro i 200 m. previsti dal piano casa, è necessario rafforzare gli argini del Bacchiglione, in città e lungo tutto il suo corso; è meglio pianificare interventi massicci sulla sicurezza antisismica, la rigenerazione urbana e il risparmio energetico, a partire da uffici pubblici e scuole. Questi interventi creerebbero numerosi posti di lavoro nel settore, e di più nell'indotto. E potrebbero far misurare su nuove metodologie e impostazioni progettuali tanti giovani laureati che stanno solo aspettando che qualcuno li chiami per mettere alla prova la conoscenze acquisite in anni di studio. Anche qui: la Scuola edile potrebbe essere il luogo dove facciamo incontrare chi progetta e chi lavora; gli ingegneri e architetti con i nostri operai specializzati, per assicurare un lavoro fatto meglio ed a costi accettabili, tagliando le possibilità di speculazione. O ancora: pensiamo a cosa potrebbe significare la riqualificazione di grandi aree industriali dismesse: l'ex Lanerossi a Schio e gli stabilimenti Marzotto non produttivi a Valdagno. La CGIL vicentina sostiene, da anni, che l'area ex Lanerossi potrebbe diventare un grande e potente incubatore di innovazione, portandovi le piccole imprese più innovative, un centro di ricerca che si relazioni costantemente con l'Università e con le scuole superiori di Schio. E discorsi analoghi si potrebbero fare per altri edifici dismessi, per esempio caserme. Immaginiamo la realizzazione di abitazioni per persone sfrattate o senza casa, con affitti a prezzi accessibili, o a luoghi di convivenza e condivisione tra anziani. A Schio, invece, pare si pensi ad una nuova area commerciale, in un luogo ormai saturo di questi non luoghi, come li definisce Marc Augè. Questi esempi ci richiamano all'importanza della città, nel futuro dell'economia e del lavoro, come ci segnalano economisti e sociologi. La città è il luogo di intervento per eccellenza del nostro settore. E sappiamo che i lavori inerenti il recupero e il riuso richiedono una manodopera più qualificata e formata, e quindi meglio pagata e trattata. Pensando alla città non dobbiamo dimenticare ciò che ci suggeriscono due noti urbanisti. Il primo, Eddy Salzano, amico della Fillea, ci ricorda sempre che: “Il tema della “città come bene comune” deve essere proposto come il centro di una concezione giusta e positiva di una nuova urbanistica e di una nuove coesione sociale, e come obiettivo dei conflitti urbani. La “città come bene comune è una città che si fa carico delle esigenze e dei bisogni di tutti i cittadini, a partire dai più deboli. E' una città che assicura a tutti i cittadini un alloggio a un prezzo commisurato alla capacità di spesa di ciascuno. E' una città che garantisce a tutti l'accessibilità facile e piacevole ai luoghi di lavoro e ai servizi collettivi. E' una città nella quale i servizi necessari (l'asilo nido e la scuola, l'ambulatorio e la biblioteca, gli impianti per lo sport e il verde pubblico, il mercato comunale e il luogo di culto) sono previsti in quantità e in localizzazioni adeguate, sono aperti a tutti i cittadini indipendentemente dal loro reddito, etnia, cultura, età, condizione sociale, religione, appartenenza politica, e nella quale le piazze siano luogo d'incontro aperto a tutti i cittadini e i forestieri, libere dal traffico e vive in tutte le ore del giorno, sicure per i bambini, gli anziani, i malati, i deboli”. Il secondo, Bernardo Secchi, ci richiama alla realtà che viviamo e sulla quale dobbiamo intervenire quando afferma: “Tra la città dei ricchi e quella dei poveri ha preso inoltre corpo la “città diffusa”, una città dispersa... La dispersione è la forma di città della parte di società più fortemente individualizzata, rinchiusa entro l'ideologia del radicamento sul proprio territorio e dell'identità; gelosa del “privato”, dell'intimità e familiarità del quotidiano, della “cura di sé”, attenta alla costruzione del proprio piccolo mondo locale che, per miopia etico-intellettuale, diviene responsabile degli aspetti più crudeli dell'esclusione di chi proviene da un mondo più vasto e globale”. Per questo è importante il lavoro degli urbanisti e dei pianificatori del territorio. Negli anni scorsi noi, a Vicenza, abbiamo cercato di dire la nostra su questi temi. La Fillea a Vicenza Una settimana fa, ad un dibattito su ambiente, lavoro e territorio a partire dalla Costituzione, molto partecipato, tenuto ai Chiostri di S. Corona, l'ex Sindaco di Cassinetta di Lugagnano ricordava che due anni fa era stato nella stessa sala invitato dalla Fillea CGIL, e rivolgeva parole di apprezzamento per il lavoro della nostra organizzazione su queste tematiche, vedendo una possibilità di alleanza tra chi chiede il rispetto dell'ambiente, del territorio e della città, e chi in quella città deve costruire o quel territorio deve modificare. Su queste tematiche dovremo riprendere una nostra iniziativa, anche a livello locale. Ci siamo mossi anche unitariamente, negli anni scorsi, nei confronti del Comune capoluogo, del Prefetto e della Provincia, per l'applicazione del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa in alternativa al massimo ribasso negli appalti e per l' istituzione della Stazione Unica Appaltante in provincia di Vicenza, senza però ottenere grandi risultati. Dovremo tornare alla carica nuovamente, anche alla luce del fatto che la Regione sta trascurando o abbandonando interventi in questa direzione, anche quando le competono a termini di legge. La nostra categoria è impegnata, in queste settimane, in questi giorni, nel tentativo di sbloccare la trattativa per il rinnovo del Contratto Nazionale dell'industria edile. Siamo nella situazione paradossale che vede la categoria aver rinnovato unitariamente tutti i i contratti, compreso quello dell'edilizia artigiana, e non riesce a rinnovare il contratto più importante dei nostri settori. La contrattazione e il mutualismo L'impossibilità di rinnovare il contratto, fino a questo momento, deriva dalle difficoltà nelle quali si dibatte la nostra controparte e l'incapacità dell'Ance di fare sintesi. Accompagnata dall'illusione di poter continuare ad operare in concorrenza comprimendo e riducendo il costo del lavoro non attraverso una riduzione degli oneri, come anche noi pensiamo, ma colpendo salario , prestazioni e diritti dei lavoratori. Ma le Organizzazioni Sindacali degli edili mai potranno rinnovare un contratto per peggiorare le condizioni esistenti. Siamo tutti consapevoli che la crisi ha messo e continua a mettere in difficoltà gli Enti Bilaterali e la tenuta dei conti degli stessi, a partire dalle Casse Edili, e per questo siamo convinti che saranno necessari interventi di razionalizzazione per metterli in sicurezza. Ma ciò non può significare che per evitare, in prospettiva, il rischio di tracollo delle Casse, si pretenda di togliere, nei fatti, l'Anzianità Professionale Edile, parte importante del salario annuo degli operai edili, e di non concedere nessun aumento salariale, o aumenti inconsistenti. Così come non convince l'idea, oggetto di molte discussioni a livello regionale, nel corso delle quali noi della Fillea di Vicenza abbiamo sempre sostenuto le nostre perplessità e contrarietà, secondo la quale per razionalizzare la strada maestra debba essere quella della regionalizzazione della Casse Edili industriali, cioè passare dalle attuali 7 Casse Edili ad un'unica Cassa. A questo proposito ricordo che la Cassa Edile di Vicenza ha chiuso in attivo anche il bilancio 2013, segno di una gestione parsimoniosa e prudente, com'è giusto che sia. Noi continuiamo a ritenere che gli Enti Bilaterali e la contrattazione debbano restare il più vicino possibile ai lavoratori e alle imprese del settore, già oggi spesso poco coinvolti, presi dalla crisi e dai problemi delle proprie famiglie e imprese. Se allontaniamo Cassa Edile e contrattazione, la partecipazione dei lavoratori rischia di ridursi ulteriormente, indebolendo lo spirito di partecipazione e democrazia che l'attività sindacale comporta. Noi pensiamo invece che altre strade siano percorribili, a partire dagli accorpamenti tra province, come tra l'altro indicato dalla Fillea nazionale sul terreno strettamente organizzativo, con le proposte che trovate nel documento in cartella, che condividiamo e che dovremo assumere al termine dei lavori. Su quelle ipotesi di lavoro siamo pronti ad avviare sperimentazioni di lavoro con altre province da subito dopo questo Congresso. Se andiamo alla regionalizzazione degli Enti e della contrattazione, alla trasformazione di alcune prestazioni in polizze assicurative, se le Casse Edili saranno sempre più al servizio delle imprese e meno a quelle degli operai, e, auspicabilmente, impiegati edili, corriamo seriamente il rischio di far perdere il carattere che distingue e contraddistingue i nostri EE. BB., e che potrebbe rappresentare un esempio importante per l'intero mondo del lavoro, oggi così disperso e frammentato: la mutualità. Mutualità che andrebbe rilanciata, come intervento solidale dei lavoratori e tra lavoratori. Pino Ferraris, compianto sociologo del lavoro, in una bella raccolta di saggi indicava, già qualche anno fa, nella ripresa della mutualità tra lavoratrici e lavoratori uno dei modi per ricomporre un mondo del lavoro fortemente parcellizzato, e si richiamava ad un'esperienza belga di fine ottocento, basata sulla nascita di numerose cooperative, accompagnate dalle Case del popolo. In quella realtà, scrive Ferraris: “...le società di mutuo soccorso depositano i contributi accantonati presso le gradi cooperative, le quali le usano per fare nuovi investimenti. Il sistema cooperativo apre farmacie cooperative che, abbattendo i prezzi dei medicinali, agevolano l'assistenza medica e farmaceutica delle mutue. Le cooperative stesse erogano poi una sorta di previdenza integrativa, rispetto a quella della mutualità”. E, più avanti: “Il reciproco aiuto per servizi di tipo mutualistico diventa momento di costruzione della solidarietà e delle coesione necessaria per esprimere la forza della rivendicazione sindacale. Le Casse edili, in Italia, sono la realizzazione storica di questo tipo di sindacalismo che, mutualizzando l'instabilità del lavoro edile, costruisce potere contrattuale”. Forse dovremo pensare al nostro ruolo negli Enti bilaterali e recuperare un po' dello spirito delle origini.. Alcune figure professionali, gruppi di lavoratori, stanno infatti agendo in questo senso; pensiamo ai restauratori o a chi lavora al Teatro Valle, occupato dagli artisti e tecnici a Roma. La frammentazione richiede una profonda riflessione sul nostro modo di operare come organizzazione, e sulla stessa contrattazione. La Fillea sul territorio A Vicenza la Camera del Lavoro aveva istituito i Consigli di Zona, come luogo di incontro ed elaborazione di politiche sindacali comuni, tra delegati, lavoratrici e lavoratori, pensionati, disoccupati e tutte/i coloro che agiscono nella società locale. Per stare sul territorio. L'esperienza ha avuto alti e bassi, punti di avanzamento e altri di blocco. Ma non deve essere abbandonata. Il recente tentativo, operato dalla Camera del Lavoro, di riportare l'intervento sul territorio nelle singole Camere del Lavoro comunali, se da un alto ha permesso di far funzionare meglio, in generale, le singole C.d.L., dall'altro, com'era prevedibile, non ha consentito di avvicinare e far partecipare delegati e pensionati sul territorio. Ciò che di positivo si è visto, è potuto accadere grazie soprattutto all'impegno di compagne e compagni ai quali è stata assegnata la responsabilità di dirigere le singole sedi: tra questi, è giusto ricordarlo, due funzionari della Fillea, Luca a Thiene e Riccardo a Noventa. Non si sono potute organizzare iniziative che facciano sentire all'esterno delle sedi la nostra presenza, così diffusa in provincia. Abbiamo sempre detto, e ribadiamo, che le sedi non devono essere unicamente luoghi di erogazione di servizi, cosa pure fondamentale e per la quale ringraziamo costantemente chi opera nelle attività di servizio. L'accordo sulla rappresentanza Penso non sia un caso se, in preparazione del Congresso, poco o niente si sia discusso su queste tematiche. Segno, temo, di un avvitamento burocratico della nostra organizzazione ad ogni livello, per cui contano sempre più gli apparati e dove si riproducono meccanismi di autoreferenzialità che riducono le differenze ed il confronto di idee a pura lotta di potere. Dovremo tentare di rompere questa logica, che mi pare si sia presentata, a livello nazionale, nella gestione della trattativa per il recente accordo sul testo unico sulla rappresentanza. Sull'argomento, mi limito a esprimere poche considerazioni: mi ha colpito che si sia firmato un accordo di tale importanza (c'è chi lo definisce di portata storica) senza coinvolgere pienamente, nella fase finale della trattativa, il gruppo dirigente, almeno quello nazionale; non era mai accaduto, a mia memoria, che un segretario generale si rivolgesse alla Commissione di garanzia per chiedere lumi sulla gestione di un confronto che è, ancora, tutto politico; non era mai accaduto che spintoni, strattoni e mani alzate tra compagni della CGIL andasse in streaming su tutti i mezzi di informazione – non abbiamo fatto una bella figura, nonostante alcune provocazioni di Cremaschi non siano certo condivisibili -; noto che le mosse successive all'accordo rischiano di continuare a dividere anziché unire. Conto molto sulla capacità di questa nostra organizzazione di ritrovare l'unità e sull'intelligenza dei suoi gruppi dirigenti diffusi. Dobbiamo compiere ogni sforzo per unire la CGIL, per il bene e il futuro di chi lavora, prima ancora che per noi che ci lavoriamo a tempo pieno. Per fare questo ognuno deve riprendere spirito critico e capacità di ascolto e di sintesi, sapendo, questo l'ho sempre pensato, che chi sta in maggioranza ha anche maggiore responsabilità. E che, pur leggendo con grande interesse l'autorevole parere del prof. Avvocato Angiolini di Milano, che la CGIL nazionale ci ha inviato, non posso non fermarmi a riflettere se un giuslavorista e un giurista di lungo corso come Umberto Romagnoli e Stefano Rodotà si interrogano se il Testo Unico sulla rappresentanza non possa avere limiti di costituzionalità. La frammentazione del lavoro, della quale i nostri settori sono esempio emblematico, richiede inoltre, come avevamo detto nel precedente Congresso della CGIL, uno spostamento di donne , uomini, mezzi sul territorio. Non abbiamo svolto una verifica di quanti passi avanti abbiamo fatto in questa direzione, ma noto che oggi ne parliamo poco o per niente. Invece dovremmo ripartire da lì: spostando coloro che operano nelle categorie sul territorio, come noi della Fillea facciamo (per noi le permanenze sono fondamentali e ci sforziamo di coprirle sempre): per poter intervenire nelle singole realtà e chiamare delegati e lavoratori a discutere ed elaborare politiche territoriali nelle nostre sedi. Il sindacalista dovrà essere sempre più un organizzatore sociale, oltre il singolo luogo di lavoro. Una brava storica dell'Università di Venezia parla del sindacalista come sciamano sociale. Per poter svolgere una buona attività contrattuale ci sarà bisogno di una forte semplificazione in materia. In questo senso credo vada attentamente valutata l'ipotesi, contenuta in un emendamento alle tesi congressuali, di contratto unico dell'industria, sicuramente piena di incognite e pro e contro. Discuterne senza esorcizzare l'ipotesi ci può, in ogni caso, permettere di trovare soluzioni utili a semplificare i contratti ed a rappresentare meglio lavoratrici e lavoratori. Avviandomi a concludere, vorrei tornare allo stato della Fillea a Vicenza. Negli anni che ci separano dal precedente Congresso abbiamo mantenuto rapporti unitari franchi e corretti, tentando di evitare rotture o di riprodurre tensioni che si creavano ad altri livelli. Salvo qualche, particolare e circoscritto, momento di tensione, siamo riusciti a concludere unitariamente accordi e a gestire difficili processi di ristrutturazione. Abbiamo rinnovato il Contratto provinciale dell'edilizia industriale e ci apprestiamo ad affrontare la situazione oggi più delicata, in provincia, relativa ai licenziamenti annunciati in Estel, con l'avvio della procedura di mobilità per un terzo dei dipendenti. Certo, non siamo riusciti, e ci assumiamo in pieno la nostra responsabilità di organizzazione di maggioranza, a far sentire la categoria sul territorio, su tematiche di interesse generale, salvo qualche, singolo, episodio. Come Fillea, ho già citato il convegno sul consumo di suolo, l'iniziativa contro la controriforma Fornero, e ricordo la vertenza al cantiere della scuola di Zugliano, con i lavoratori che hanno presidiato il cantiere sotto la neve e il gelo, chiedendo dignità e la loro retribuzione. Abbiamo gestito numerose situazioni di crisi, utilizzando tutti gli ammortizzatori sociali a disposizione: CIG, CIGS; Contratti di Solidarietà, modulando gli interventi per utilizzarli il più a lungo possibile. Qualcuno accusa come assistenzialistico questo uso degli ammortizzatori sociali. Non scherziamo. Questi strumenti rappresentano semplicemente il tentativo di evitare di lasciare lavoratrici e lavoratori senza lavoro e senza alcun reddito, per quanto minimo (anche se questi anni ci hanno insegnato che avere lavoro non significa necessariamente essere pagati): per assicurare la sussistenza, per avere la forza di lottare per una vita dignitosa. Per quanto riguarda la nostra organizzazione a Vicenza, la crisi ha comportato un calo di iscritti, anche se molto contenuto, ma un calo di entrate molto più che proporzionale al calo di iscritti. D'altra parte, da un alto la diminuzione di iscritti alla Cassa Edile; dall'altro l'utilizzo degli ammortizzatori sociali con il mancato versamento delle quote sindacali, hanno portato ad una diminuzione di entrate che ci è costata pesanti sacrifici. A questo proposito colgo l'occasione del Congresso per ringraziare Agostino Pantusa e Toni Toniolo per tutto ciò che hanno dato e ancora stanno dando alla categoria. Il calo di entrate ci impedisce di continuare a conservare con loro un contratto di collaborazione che li vedeva molto impegnati. Perciò Toni continua ad operare come collaboratore volontario, senza compenso, per seguire la Pedemontana; Agostino ci dà ancora un aiuto e la sua presenza in sede, pur sapendo che la categoria oggi non ha risorse. Come sanno coloro che hanno fatto parte del Comitato Direttivo che con il Congresso andremo a rieleggere e rinnovare, le risorse in calo pesano su tutti noi e su tutta l'organizzazione. Anche per questo la Fillea nazionale ci ha chiesto di applicare le regole in vigore sulla distribuzione delle entrate da quote sindacali e di versare al nazionale una cifra superiore a quella versata finora. Anche questo pesa, sulla tenuta dei bilanci. E' vero che la crisi si sente a tutti i livelli, ma dobbiamo scegliere, anche nella distribuzione delle risorse, se vogliamo privilegiare la presenza il più vicino possibile ai lavoratori, come noi pensiamo. Gli organismi dirigenti che eleggeremo al Congresso dovranno prestare particolare attenzione alla tenuta dei conti della Fillea. Non ci potremo permettere di indebitare la categoria. Insieme dovremo lavorare per recuperare iscritti e iscrivere nuove lavoratrici e lavoratori. In questo senso chiediamo un particolare impegno a tutte e tutti voi. Siamo ancora, e vogliamo continuare a farlo, nelle condizioni di garantire una presenza ramificata sul territorio, di assicurare presenza e assistenza alle lavoratrici e lavoratori che vengono nelle nostre sedi e di intervenire nelle aziende grandi e piccole per tutelare chi ci lavora. Questa è la mia ultima relazione da segretario generale. Se il Comitato Direttivo che verrà eletto lo riterrà utile, sarò ben felice di continuare ad assumere la responsabilità della categoria nel prossimo periodo. Dovrei nel frattempo maturare il requisito pensionistico, prima della scadenza del mandato. Siccome penso che non è per forza necessario andare in pensione da segretario generale, decideremo insieme, per tempo, sulla mia sostituzione. Per concludere Concludo davvero con un'ultima citazione, da un libro di Walter Tocci, senatore e direttore del Centro per la Riforma dello Stato, nella quale vengono espressi perfettamente pensieri che passano anche per la mia testa, forse perché anch'io li ho vissuti come lui, e che vi voglio lasciare. Ricordando l'inizio del suo impegno dice: “L'autunno caldo era finito, ma i suoi fuochi erano ancora accesi. Entrare nel mondo del lavoro in mezzo a quelle tensioni fu un'esperienza inebriante: scioperi, manifestazioni, volantinaggi, assemblee, discussioni infinite tra le persone, dalla busta paga alla fame nel mondo... Dopo poche settimane mi ritrovai con le braccia intrecciate a quelle dei miei compagni in un picchetto ai cancelli della fabbrica per impedire l'ingresso ai crumiri. Non ho mai più sentito il freddo di quegli inverni, non ho mai più avvertito la paura dello scontro fisico di quelle mattine, non ho mai più provato la stanchezza di quel fare da barriera umana. Però non ho mai più sentito neppure la forza di quelle braccia serrate, al potenza dell'azione collettiva, quell'ambizione di piegare la storia”. E parlando degli operai della fabbrica scrive: “Né ho mai più incontrato quei tipi di uomini saggi e generosi, capaci di lottare per sé e per gli altri. Abbiamo dimenticato gli scioperi degli operai del nord per costringere le imprese a investire nelle terre meridionali”. A chi afferma che quando si parla del passato, e di una parola che allora si usava e ora molto meno, militanza, c'è il rischio di essere nostalgici, Tocci risponde: “Alla base dei pensieri militanti c'è un sereno apprendimento della memoria, che diventa tanto forte da non cadere nella nostalgia. I pensieri sono militanti proprio perché non bastano a loro stessi, sono rivolti a quelli di altri, sono sempre un'esperienza collettiva nella quale la dimensione esistenziale entra in una tensione creativa con la dimensione storia”. Poi si chiede perché la parola militanza e risponde: “L'amo molto, quando la uso sento ancora una vibrazione nell'animo, come quando la scoprii in gioventù. Oggi mi piace aggiungere sono un vecchio militante. E' come dire sono stato nella storia, non solo nel senso generico di aver partecipato agli eventi, ma di aver preso partito, come parte che vuole afferrare l'intero. E infine, dirsi militante significa urlare in faccia alla mediocrità dell'epoca un orgoglioso Non mi avrai. L'eredità di aver vissuto un giorno come gli dei protegge dal pericolo di abbandonarsi al conformismo. E' la forza segreta del militante”. In questo senso forte, anch'io mi sento militante della CGIL.

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