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Numero Zero Sindacato Nuovo, aprile 2019. Contrattazione inclusiva delle alte professionalità. Di Cristian Perniciano, responsabile della Consulta delle professioni Cgil 

Il mondo del lavoro si sta polarizzando. Da una parte Alte professionalità dipendenti o autonome, alti livelli di competenza per padroneggiare i nuovi processi, maggiore autonomia del lavoro per progetti. Dall’altra, lavoro povero di retribuzione e contenuto, mansioni ripetitive utilizzate anche per quel machine learning che permetterà domani ai robot di sostituire gli stessi umani da cui apprendono oggi. 

In entrambi i casi entra in difficoltà la classica contrattazione collettiva: per i primi perché spesso trovano più conveniente la contrattazione individuale, nel secondo caso perché il basso valore aggiunto, le condizioni di precarietà e l’elevata sostituibilità rendono assai difficile la contrattazione. Ciò non vuol dire che non esisteranno più operai e impiegati, o che non ha più senso il lavoro tradizionale del sindacato. Significa solo che il sindacato ha necessità di mutare le proprie pratiche contrattuali e organizzative per inserirsi in questo mutamento e, nei limiti del possibile, determinare l’evoluzione di un futuro che, per definizione, non è ancora scritto. 

È necessario non rassegnarsi alla divisione in atto, anzi unificare con quella confederalità che ad inizio secolo univa braccianti e macchinisti. 

Il tema delle alte professionalità, in particolare, lancia all’organizzazione sfide inedite.
La Cgil in questi anni ha previsto strutture ad hoc a livello di confederazione (Agenquadri e Consulta delle Professioni, che dovranno unificarsi in Apiqa), e da tempo anche le categorie stanno includendo nei loro contratti questi lavoratori tradizionalmente diffidenti all’esperienza sindacale ma che manifestano bisogni ed esigenze che possono e devono essere intercettate dal sindacato. 

Una delle maggiori difficoltà nell’inclusione nei Ccnl deriva dalla forma contrattuale. In fondo esistono da tempo previsioni collettive per le alte professionalità dipendenti, dal salario, ai premi, ai tempi di lavoro. Più complesso diventa gestire questa partita quando i lavoratori scelgono (spesso consapevolmente) la forma di freelance. E la difficoltà nasce innanzitutto da una titolarità contrattuale ancora da conquistare, perché per i datori di lavoro è naturale pensare che i sindacati contrattino le condizioni dei dipendenti, mentre i consulenti se la vedano face to face. Non è poi neanche così scontato che il sindacato abbia voglia di inserirsi in questa dinamica.

Certo, spesso i contratti freelance sono utilizzati per fare dumping, tuttavia è vero anche che strappare qualcosa per i non dipendenti può voler dire non poter chiedere quel qualcosa in più per i dipendenti, magari iscritti storici. Purtroppo in questo anche la Carta dei Diritti mostra forse qualche limite, indicando che per i freelance debbano essere le associazioni degli autonomi, e non il sindacato, a stabilire accordi collettivi. Per questo motivo è da evidenziare il coraggio di quelle categorie che hanno provato ad inserire nei rinnovi contrattuali delle norme destinate ai non dipendenti. 

Slc nel rinnovo del contratto spettacoli dal vivo ha inserito l’obbligo, per gli autonomi, di una paga pari almeno al 150% di quella del dipendente. Filcams ha deciso di agire invece dal lato della bilateralità, prevedendo che le prestazioni spettino anche ai professionisti non titolari, come già da tre anni avviene per collaboratori e praticanti.
Un insieme delle due direttrici si individua nel nuovo contratto Fillea per l’edilizia, che prova ad individuare sia dei diritti minimi (intelligentemente discussi anche coi diretti interessati per evitare di costruire impalcature splendide ma unfitted) che l’accesso alla sviluppata bilateralità del settore.

È sicuramente un bene prevedere che chiunque lavori in un cantiere debba avere le stesse tutele, anche di bilateralità, e che non possa essere pagato meno di un dipendente con maggiorazione del cottimo. Nel dialogo con le associazioni delle professioni tecniche ed edili abbiamo tuttavia appurato come la nozione di equo compenso sia assai più complessa di come ipotizzavamo. Non è infatti sufficiente parametrarlo sui minimi, in quanto le variabili in ballo sono molte e le caratteristiche con cui si dispiega la prestazione non sono così assimilabili ai nostri rassicuranti minimi contrattuali. C’è la variabile tempo, certo, ma anche la variabile qualità, complessità, back office, formazione, confronto. Tutta una serie di costi che devono essere presi in considerazione affinché un compenso sia considerabile equo.

Peraltro, al netto della possibilità di operare concorrenza (Quando? Come? Fino a che punto?), il che complica ulteriormente una matassa già difficile da districare, in cui la natura dell’equità del compenso dovrebbe garantire sia il prestatore d’opera che la qualità del lavoro richiesto dal cliente.
 Nonostante le difficoltà resta certamente un bene iniziare da un limite di compenso minimo di sicurezza, ma sarà necessario un approfondimento perché la contrattazione inclusiva non può limitarsi ad immettere gli esclusi nei nostri percorsi, ma necessita anche che i percorsi stessi si possano modificare per venire incontro ai nuovi arrivati, in una costante integrazione che non si accontenta di aprire varchi tra i confini, ma che invece questi confini vuole eliminarli per determinare la nuova soggettività di un lavoro senza aggettivi. 

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