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Sindacato Nuovo, numero 1, Agosto 2019. La proposta dell Fillea: introdurre il reato di omicidio sul lavoro. Ne parla Antonio Valori, avvocato e consulente della Fillea Cgil.

In base agli ultimi dati pubblicati dall’Inail dei primi mesi del 2019, a livello complessivo, sono aumentati sia gli infortuni al cui esito i lavoratori hanno riportato lesioni – anche gravissime – che gli infortuni mortali. 

Questa ignominiosa strage – che si ripete ormai a cadenza quotidiana senza che le autorità preposte spendano altro se non parole di circostanza – è da ricondursi a un mercato del lavoro in cui prevale la giungla della precarietà e del lavoro irregolare, soprattutto in presenza di una filiera di subappalti al massimo ribasso. 

Una componente imprescindibile della politica per la sicurezza deve peraltro basarsi non solo sulla prevenzione dei fattori di rischio ma anche su norme repressive dirette a punire i colpevoli di tali tragedie. 

In tal senso si osserva che l’infortunio mortale sul lavoro ad oggi rientra nella fattispecie colposa e pertanto punito ai sensi dell’art. 589 cp, secondo comma, con la reclusione da due a sette anni. Per converso, gli infortuni al cui esito i lavoratori riportino lesioni rientrano nella fattispecie di cui all’art. 590 cp, che prevede una pena fino a tre mesi per lesioni semplici, mentre per lesioni gravi ovvero gravissime la pena prevista è rispettivamente la reclusione da tre mesi a un anno ovvero la reclusione da uno a tre anni. Da quanto sopra, e anche in ragione dell’esiguità delle pene – che il più delle volte vengono ulteriormente ridotte ove i responsabili accedano a riti alternativi ovvero ricorrano al patteggiamento della pena – appare evidente come in maniera del tutto inaccettabile e codarda non sia mai stata soddisfatta la necessità di una punizione più severa nei confronti di chi sul lavoro cagiona la morte di vittime innocenti, per distrazione, disinteresse, o peggio per un’assoluta noncuranza delle normative sul lavoro dimostrando di dare priorità ad altri interessi ovvero al malaffare rispetto alla tutela della vita umana.
Pertanto, mutuando altresì i princìpi ispiratori di normative introdotte negli ultimi anni per la tutela dei lavoratori – quale ad esempio la legge 199/2016 contro lo sfruttamento del lavoro – ovvero anche in materia di sinistri stradali, sarebbe necessario introdurre nuove norme che ad esempio garantiscano la certezza e l’effettività della pena, allunghino ovvero raddoppino i termini di prescrizione per i reati di lesioni, aumentino le pene per i responsabili degli illeciti e introducano un sistema per cui il responsabile civile, ai fini del risarcimento del danno, non possa esimersi in maniera subdola – e offensiva dell’altrui vita – dalle responsabilità delle persone fisiche autori degli stessi illeciti, atteso altresì che vi sono aziende che registrano periodicamente infortuni sul lavoro senza che i titolari ne paghino poi effettivamente le conseguenze. 

Del resto, con la legge 23 marzo 2016, n. 41 è stato introdotto nel nostro ordinamento il cosiddetto reato di “omicidio stradale” per quei reati colposi causati da gravi violazioni delle normative sulla circolazione stradale, con soddisfazione delle vittime di questi gravi episodi di cronaca e dalle associazioni dei familiari. 

Ebbene, non si scorge la ragione perché è stato previsto un aumento di pena solo per il caso di reato di omicidio stradale e non anche per coloro che causano la morte di persone violando le norme antinfortunistiche di cui al 589 cp, atteso che gli infortuni sul lavoro non hanno minor importanza rispetto ai sinistri stradali e i lavoratori morti meritano di avere la medesima giustizia.
Del resto, l’articolo 3 della nostra Costituzione sancisce un principio di uguaglianza sostanziale che dovrebbe vedere collocati in posizione paritetica situazioni di fatto analoghe, senza creare ingiustificate disparità. Tuttavia, pur a fronte di una situazione così drammatica, non solo risulta essere del tutto carente una strategia nazionale ma, al contempo, i recenti provvedimenti legislativi adottati si muovono nel senso opposto rispetto alla tutela della salute sul posto di lavoro. 

E difatti, all’esito dell’ultima legge di bilancio, si è pervenuti sia al taglio di circa un terzo delle tariffe Inail a carico degli imprenditori sia alla riduzione di circa 150 milioni di euro l’anno delle risorse destinate alla prevenzione. 

A ciò si aggiunga che tramite il suddetto testo legislativo si sta tentando di introdurre – in modo non conforme con i precetti costituzionali – il meccanismo sulla cui scorta non si farebbe luogo al risarcimento dei danni per il lavoratore se essi non ammontassero a una somma maggiore rispetto alle indennità erogate dall’Inail, da ciò derivandone una diminuzione della tutela riparatoria prima accordata al lavoratore. 

È doveroso altresì rilevare che tutto ciò deve valere ancora oggi solo ed esclusivamente per il cosiddetto danno differenziale – dato dalla differenza tra quanto versato dall’Inail e quanto richiesto al datore di lavoro a titolo di risarcimento del danno in sede civilistica – e pertanto è necessario vigilare affinché non si creino confusioni tra danno differenziale e danno complementare, atteso che quest’ultimo è costituito da quei danni – quale ad esempio il danno morale – esclusi dalla tutela assicurativa Inail e pertanto risarcibili dal datore di lavoro senza limiti e secondo le ordinarie regole della responsabilità contrattuale. 

Nel medesimo segno – che non può di certo definirsi riformatore – della legge di bilancio si muove il cosiddetto decreto sblocca cantieri, che si incentra sostanzialmente sulla sospensione di alcune norme del Codice degli appalti con il risultato di introdurre più confusione, disordine e terreno più fertile per chi vuole corrompere e impoverire – anche tramite il ricorso al criterio del minor prezzo – le garanzie poste a tutela della salute dei lavoratori impiegati. 

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