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Sindacato Nuovo, numero 1, Agosto 2019. Il più grande processo italiano alla 'ndrangheta, il racconto della mafia imprenditrice, epicentro Reggio Emilia. Ne parla Mirto Bassoli, della segreteria Cgil Emilia Romagna.

 

Il processo Aemilia, il più grande processo italiano alla ’ndrangheta, è arrivato al traguardo. Nell’ottobre del 2018 la Cassazione ha emesso la sentenza definitiva per gli imputati che avevano scelto il rito abbreviato. 

   Nelle stesse settimane, il Tribunale di Reggio Emilia ha emesso la sentenza di primo grado per coloro che avevano optato per il rito ordinario. In totale 177 condanne per oltre 1.500 anni di carcere. L’impianto accusatorio, sostenuto nella complessa indagine svolta dalla DDA di Bologna, è risultato quindi confermato: il reato di associazione di stampo mafioso è stato contestato a un’organizzazione “autonoma e localizzata, operante nell’intero territorio emiliano” – ma sono state interessate anche Lombardia e Veneto – “come un grande ed unico gruppo ’ndranghetistico, col suo epicentro a Reggio Emilia”. È stato infatti dimostrato che il rapporto con la cosca madre, la Grande Aracri di Cutro, non era tale da pregiudicare la capacità di chi guidava il sodalizio emiliano di agire appunto in piena autonomia. 

Il processo ha fatto emergere una storia lunga decenni, solo in parte sovrapponibile con i processi migratori che dalla Calabria verso l’Emilia si sono sviluppati fin dagli anni 70. Il contributo di almeno tre collaboratori di giustizia è stato fondamentale, sia per comprendere i meccanismi di radicamento della ‘ndrangheta nel territorio emiliano - la complessa rete di rapporti intessuti con imprenditori, professionisti, giornalisti, funzionari delle banche e delle poste, esponenti delle forze dell’ordine –, sia per svelare mandanti ed esecutori dei delitti commessi in particolare a Reggio Emilia negli anni 90, la fase nella quale la ‘ndrangheta decise di sparare anche in terra emiliana. 

Fin da subito l’organizzazione criminale finita sotto indagine è stata definita “mafia imprenditrice”. Furono queste le parole di Franco Roberti (l’allora procuratore capo Antimafia), alle quali seguirono quelle utilizzate da Claudio Fava: “Se la ‘ndrangheta ha saputo  penetrare così facilmente l’economia di queste terre, ciò è dovuto alla complicità di molti imprenditori locali ed al fatto che si considerava conveniente ricorrere ai servizi forniti dalla ‘ndrangheta”. Parole molto pesanti, confermate dallo stesso pm del processo, M. Mescolini, nella sua requisitoria finale: “Non è stata la ‘ndrangheta a bussare alle porte degli imprenditori locali, sono stati questi ultimi a spalancarle”. 

Sta di fatto che interi settori dell’economia sono stati penetrati e posti sotto il diretto controllo della criminalità organizzata. In modo particolare l’edilizia e i trasporti sono risultati tra i più colpiti. Prova ne sia il tentativo di entrare nei lavori della gestione dell’emergenza e della ricostruzione post-sisma del 2012. Emblematica, a tal proposito, la vicenda della ditta Bianchini Costruzioni di San Felice, storica impresa nata più di 40 anni fa e stretta tra le grinfie di Michele Bolognino, considerato dagli inquirenti uno dei capi della cosca emiliana andata a processo. I lavoratori erano nelle mani del caporale Bolognino ed erano costretti a restituire circa 1.000 euro al mese del loro stipendio, oltre a subire pesanti minacce e a dover rinunciare a diversi diritti per poter lavorare.
La Bianchini fu esclusa dalle white-list per i lavori della ricostruzione e ne nacque un conflitto sindacale durissimo, concluso con l’arresto dell’imprenditore e del caporale.
Cgil-Cisl-Uil dell’Emilia Romagna e le due Camere del lavoro di Reggio Emilia e Modena si sono costituite parte civile nel processo, contribuendo per altro ad aprire una strada che ha portato la Cgil, nell’ultimo congresso, a decidere di inserire tale prassi all’interno del proprio Statuto.
Non è stata una costituzione di tipo  “formale”, posto che di formale non c’è  nulla quando si decide di essere soggetti attivi all’interno di un maxi-processo di mafia. Abbiamo voluto entrare nel processo per scavare ulteriormente il tema lavoro e capire cosa aveva davvero significato il metodo mafioso applicato al lavoro nella realtà emiliana, mettendolo in relazione con la nostra esperienza e le nostre denunce. 

Alla fine il nostro lavoro è stato riconosciuto. Innanzitutto con gli ottimi argomenti utilizzati dal Gup nel dispositivo di ammissione delle parti civili. Poi nella sentenza della Cassazione, che ha riconosciuto l’importante ruolo del sindacato nell’azione di contrasto alle mafie: un ruolo di “tutela delle libertà individuali e dei diritti primari del lavoratore”. Infine la sentenza di Reggio Emilia, con il riconoscimento del diritto al risarcimento patrimoniale, in particolare alle due Cdl, in relazione al “danno di proselitismo” subìto dalla Fillea. Anche in questo caso una “prima volta”, ottenuta avvalendosi del supporto di un importante studio svolto dall’Università Milano-Bicocca. 
La strada è tracciata. Ora è importante proseguire per rendere sempre più efficace l’azione svolta dal movimento sindacale sul terreno della legalità, del contrasto alle mafie e per una maggiore giustizia sociale. 

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