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Sindacato Nuovo, luglio 2020. Il paesaggio, chiave per guardare alla trasformazione di una città come ad un processo unico, continuo, inframmentabile. Di João Nunes, architetto

Sì, la città di Lisbona è cambiata, ma così avviene per tutte le città, che sono sempre in un processo storico di cambiamento. Una delle cose che noi dobbiamo capire, quando parliamo di rigenerazione e di rigenerare, è che siamo davanti a una trasformazione costante di tutte le cose intorno a noi. L’immobilità del mondo è una visione che non è possibile difendere. Il mondo cambia sempre.

Dunque avere una visione nostalgica di una Lisbona che una volta era meglio di quello che è oggi, è un limite che non ci si deve porre. Anzi tutti gli sforzi sono stati fatti nel senso di farne una città ogni volta migliore, ogni volta più bella, ogni volta più giusta, ogni volta più equilibrata, è quello che ha funzionato e tuttora funziona meglio.

All’improvviso siamo nel terzo millennio, e non possiamo leggerne la storia con gli strumenti del novecento, anzi le cose sono cambiate in una direzione molto interessante. In  passato si raccontava la storia intorno ad un personaggio, l’individuo o l’eroe, che diventava oggetto di una narrativa molto limitata nel tempo, nello spazio e nella sua capacità di descrivere un contesto.

Ora bisogna sempre più provare a guardare alla storia come ad un insieme di storie e contesti: la nostra storia, la mia storia, la tua storia è la storia dei dinosauri, è la storia della terra, è la storia del sistema solare. Non ci sono tante storie: c’è una grande storia. Quando estendiamo quest’idea agli altri animali, alle altre comunità e cominciamo a capire che noi siamo effettivamente parte di una storia che non si può separare tra umani e non umani, non si può separare tra uomini e animali, non si può separare tra animali e piante, che tutta la storia è una storia sola, allora cominciamo veramente a capire un po’ meglio le cose. Questa idea è in contrasto con l’idea di modernità che ci ha portato, con una ossessione tassonomica, a cercare di frammentare, a porre frontiere, divisioni, categorie, barriere, quando invece la realtà è tutta una, tutta un’enorme fluida cosa sola.

Questo mi sembra che è quello che si è capito. Lo strumento di questa comprensione, che è uno strumento che riesce a sintetizzare una visione scientifica in una visione propositiva, si chiama paesaggio. Il paesaggio è la chiave che riesce a darci dati sufficienti per proporre una lettura di quello che noi possiamo fare, che rigetta la copia di modelli che possiamo giudicare più o meno virtuosi, e che invece ci porta ad avere, soprattutto dal punto di vista etico, la comprensione della realtà come di una cosa sola.

Lisbona è stata disegnata un po’ così. Il suo disegnatore, il disegnatore del Piano verde di Lisbona, figura importante e ministro dell’ambiente negli anni Novanta è un architetto paesaggistico, il decano degli architetti paesaggisti del mondo, forse ha contaminato con le sue idee una governance che ancora adesso parte dal principio che la città non si governa come un insieme di frammenti, costruita con incollaggi forzati tra cose diverse, ma bensì è in una continua ricerca di cos’è dal punto di vista della sua identità, cos’è dal punto di vista del suo metabolismo, come funziona, cos’è dal punto di vista della sua struttura, cos’è dal punto di vista dell’immaginario che riesce a costruire intorno a se stessa, cos’è dal punto di vista della qualità delle vite delle persone.

Dunque io direi che le cose non possono essere assolutamente considerate come un insieme di cose diverse, come una somma di cose diverse e per questo bisogna cercare di cambiare la cultura, anche dal punto di vista dell’urbanistica, per imparare a guardare alla trasformazione di una città come ad un processo unico, continuo e che non può essere frammentato.

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