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Sindacato Nuovo, Gennaio 2023. Fate rumore, facciamo rumore: l'editoriale Di Alessandro Genovesi 

Care compagne e compagni, cari lettori e lettrici di Sindacato Nuovo, quando leggerete questo editoriale magari qualche valutazione o commento sarà (nel bene o nel male) superato dai fatti. Questo è il rischio quando si scrivono gli editoriali di un trimestrale: si scrive ai primi di gennaio e si legge un mese e più dopo. Sicuramente non sarà però cambiato il giudizio su questa fase che, dopo il voto del 26 settembre scorso, ci ha consegnato un governo di destra-destra.

Correttamente abbiamo letto il voto per quello che è stato: 12 milioni di elettori che scelgono Meloni, Salvini e Berlusconi e che, grazie al fatto che si sono alleati, hanno preso la maggioranza dei deputati e senatori e hanno il diritto/dovere di governare. Nonostante 15 milioni di persone abbiano votato altri partiti (però divisi) e soprattutto nonostante sia cresciuta l’area del non voto (quasi 18 milioni) e questo ultimo dato è un male per la democrazia, a prescindere da chi abbia vinto.

Abbiamo quindi aspettato qualche tempo per giudicare sul merito i primi provvedimenti anche se, personalmente, dalla destra non mi aspetto che scelte politiche e sociali a vantaggio dei più forti (o dei più furbi): dal decreto rave party alle prime scelte sulla giustizia o sull’autonomia differenziata abbiamo avuto qualche certezza “in più” sul piano dei “valori”.

Con la legge Finanziaria abbiamo avuto certezza invece sui soggetti sociali a cui vogliono parlare (e soprattutto a cui vogliono dare). In piena crisi da inflazione (oltre il 12%) le priorità non sono state difendere il potere d’acquisto di salari e pensioni, non è stato combattere l’evasione e il lavoro nero, non sono state politiche industriali più ambiziose, non è stato neanche mantenere (anche riformandoli sia chiaro) i vari incentivi per favorire risparmio energetico ed efficienza a vantaggio dei soggetti più deboli che vivono spesso nelle case più vecchie ed energivore.

Le priorità del governo sono state provare fino all’ultimo a superare i pagamenti elettronici e aumentare il contante (chi non vuole pagamenti tracciabili, chi vuole prendere soldi senza fare fattura, chi vuole pagare lavoratori “cash” senza busta paga?). Priorità è stata la reintroduzione dei voucher (altro che combattere il precariato); la flat tax (cioè pagare solo il 15% contro il 30% ordinario) per i lavoratori autonomi fino a 85 mila euro (quasi 2,5 volte la media di un lavoratore dipendente). Tra le priorità vi è stato ridurre le tasse sugli utili da rendita finanziaria (cioè quanto si paga quando si vendono azioni, polizze, ecc.) al 14% contro il 26% pagato sugli utili di imprese e il 30% sul salario (tradotto “pirla chi lavora, pirla chi fa impresa che produce”, “bravi quelli che vivono di rendita”).

E ovviamente nessun intervento è venuto per ridurre sensibilmente il cuneo fiscale o per aumentare le risorse per il welfare pubblico e l’assistenza, magari aumentando la tassazione sugli extra profitti. Anzi il segnale sul welfare, la sanità e la difesa dei più deboli è stato chiaro ed esplicito: tagliando tasse ai ricchi per oltre 3 miliardi (tanto valgono flat tax, condoni, ecc.) si tolgono 3 miliardi allo stato sociale (minori entrate) e con un’inflazione al 12% (anche le Pubbliche Amministrazioni quando comprano medicinali, libri, ecc. pagano l’aumento dei prezzi) il taglio è, nei fatti, assai più amplio.

Così come il taglio sul Reddito di Cittadinanza: una misura da migliorare agganciandola alla creazione e ricerca di lavoro, una misura che va forse ricondotta di più all’assistenza (parliamo di poche centinaia di euro per minori, per chi non può lavorare, per integrare lavoretti che non arrivano alla soglia minima, ecc.) ma che cancellare oggi, di fatto, senza alternative è solo “cattiveria sociale” contro chi sta peggio, mentre si aiuta chi è già ricco (come hanno modificato il Super Bonus è evidente: solo i ricchi dal 2023 potranno anticipare il 100% e riprendersi il 90 nei 5 anni successivi, portandolo in detrazione; e nulla si è fatto per i crediti già ceduti e rimasti nel cassetto delle imprese).

Per queste ragioni siamo stati e dovremmo essere ancora in campo, informando nelle aziende e sul territorio, lavoratori, disoccupati, pensionati. E sostenendo le nostre rivendicazioni: sia quelle politiche di settore (si vedano gli articoli in pagina sulla proposta di nuovo Codice degli Appalti o ancora le campagne sulla salute e sicurezza oggetto della recente Assemblea Nazionale della Fillea Cgil o il Testo Unico sulla Ricostruzione Privata nell’area del sisma) che quelle contrattuali (dall’applicazione del positivo accordo di metà dicembre sul Durc di Congruità e per le segnalazioni ai fini del DURC/DOL al rinnovo del CCNL del Legno con relativa “doppia pista salariale”).

Soprattutto dovremmo tenere insieme le vertenze di categorie con quelle generali confederali: della Cgil sulla precarietà e unitarie, con CISL e UIL, su fisco e pensioni. Sapendo quanto difficile oggi sia un percorso unitario, tanto a livello di categoria che confederale, ma senza mai rinunciare a provare a percorrerlo fino in fondo, se serve, iniziando nuovamente ogni volta.

La stessa stagione congressuale della Cgil va quindi letta come un’occasione (e lo è stata, in molte circostanze) in cui provare a tenere insieme il quotidiano e il medio termine, il bilancio di questi 4 anni straordinari (nel senso proprio del termine, dalla Pandemia alla Guerra in Ucraina, dal Governo Salvini-Di Maio al Conte Due, Draghi e ora Meloni) e i prossimi 4 che ci attendono.

Con tutte le contraddizioni ed i limiti del caso, con tutti i problemi che avremo, ma anche con quella forza fatta di idee, donne e uomini che ci fanno essere ancora un riferimento per milioni di lavoratori e pensionati.

A Modena, al XX Congresso della Fillea Cgil e poi al congresso nazionale della Cgil a Rimini, proveremo a tirare qualche riga, partendo da cosa abbiamo fatto e cosa abbiamo alle spalle, coerenti con la nostra storia (il 2022 ci ha visti anche festeggiare i nostri “primi 136 anni” come Fillea) e con il nostro essere sempre “da un lato della barricata”, figli orgogliosi di un pensiero e di una cultura politica, progressista e di sinistra.

Provando a costruire un po’ di futuro secondo lo slogan: “più contrattazione, più rappresentanza, più democrazia”.

Perché alla fine sempre lì si torna, come all’inizio di questo editoriale: alla democrazia sociale, politica ed economica che è la democrazia dei “produttori” per dirla con le parole di Bruno Trentin. Che è partecipazione, al voto, alle scelte di impresa, sul territorio.

E certo cambiano le tecnologie, il cosa e come produrre; cambiano le relazioni produttive e le professioni; cambiano le priorità (quella ambientale prima fra tutte), ma non cambia la voglia di libertà, la difesa della dignità, l’esigenza di un maggiore protagonismo del mondo del lavoro.

Ce lo ha ricordato da ultimo Papa Francesco quando ha incontrato la Cgil il 19 Dicembre scorso in Vaticano: “non esistono sindacati senza i lavoratori, ma non esistono lavoratori liberi senza il sindacato”.

Fate rumore, facciamo rumore…

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