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Sindacato Nuovo, Gennaio 2023, pag. 6: lo strano caso del Codice Appalti e di un governo che rischia di riportarci indietro di vent’anni, di Alessandro Genovesi, Segretario nazionale Fillea Cgil.

Al momento in cui scriviamo queste righe per Sindacato Nuovo conosciamo solo i testi su cui il Governo sta chiedendo un parere al Parlamento. Un parere che, per quanto importante politicamente, non è però vincolante. Quindi tutti noi siamo impegnati dentro e fuori le aule parlamentari, perché il testo “finale” dia il massimo delle tutele ai lavoratori, favorisca la crescita qualitativa ed industriale delle aziende e contrasti norme che rischiano di “farci tornare indietro”, di rendere più difficile i controlli, rispetto delle regole e maggiore trasparenza.

Dobbiamo fare i conti, del resto, con una normativa che ha una nascita tortuosa e che ha conosciuto più contesti (politici) e più mani lavorarci. Con un inquadramento politico necessario: la legge 78/2022, cioè la legge delega da cui discendono i decreti legislativi attuativi, fu proposta e molto migliorata da una maggioranza politica (e un Governo) che oggi non c’è più. Il Pd, Leu e il Movimento 5 Stelle sono ora all’opposizione, mentre Forza Italia è molto schiacciata dalla destra più estrema e la stessa Lega di Salvini – quella che ha perso più voti a favore di Fratelli d’Italia – è in permanente campagna elettorale, per provare a recuperare.

Peccato che il sistema degli appalti pubblici sia un sistema complesso, che vale oltre 100 miliardi di euro l’anno, tra appalti di lavori e servizi, e che l’obiettivo di tutti è fare in modo che le risorse ordinarie, del PNRR e del Fondo Complementare producano cantieri, lavoro e occupazione, ma creando posti di lavoro sicuri, dignitosi e ben pagati, senza farci mettere le mani da corruttori e criminalità.

Fatto questo doveroso inquadramento politico passiamo al merito e alle “diverse fasi”.

Prima fase: il Parlamento vota a giugno 2022 una buona legge delega, la 78/2022 appunto. Dove anche grazie al lavoro di alcuni deputati e senatori (tra questi Mirabelli, Braga, Muroni, Errani, Orlando, Speranza, ecc.) si riafferma la centralità del contratto collettivo nazionale di riferimento, le norme sulla parità di trattamento economico e normativo tra lavoratori in appalto e subappalto e l’applicazione del medesimo CCNL, il Durc di Congruità, l’obbligatorietà della clausola sociale, ecc. Con anche alcune novità significative: la specificità degli appalti di servizi (per cui è obbligatoria sempre l’Offerta Economicamente Vantaggiosa) e il principio (fortemente rivendicato dal sindacato, FILLEA e FILCAMS CGIL insieme alla Confederazione) di escludere dai ribassi d’asta i costi della manodopera e non solo i costi della sicurezza (come è già previsto dal Codice di cui al Dlgs. 50/2016): una vera rivoluzione a tutela del lavoro.

In più viene stabilito che, nel meccanismo di rivisitazione dei prezzi, oltre ai materiali o ai beni devono essere compresi anche gli aumenti contrattuali (insomma occorre tenere conto dell’inflazione sia se si tratti di acquistare acciaio o cemento, sia se si tratti di riconoscere aumenti contrattuali proprio per tutelare i salari dall’inflazione).

In sintesi il sindacato lotta e propone ed il Parlamento recepisce diverse nostre richieste.

Poi, come da legge delega, il “boccino” passa in mano al Consiglio di Stato (seconda fase) che, con particolare attenzione e capacità, prova a tradurre questi principi in norme. Il Consiglio di Stato fa un buon lavoro: in materia di tutele sindacali mantenendo (art. 11) la centralità al contratto collettivo nazionale di lavoro, mantenendo le tutele conquistate con il Decreto 77/2021 sulla parità di trattamento tra lavoratori in appalto e subappalto, il Durc di Congruità, l’esclusione dei costi della manodopera dai ribassi (nuovo art. 41), con anche innovazioni significative, come per esempio il nuovo art. 110 sulla verifica delle anomalie.

Insomma si conferma e rafforza il punto che i veri problemi non stanno nell’esecuzione, ma stanno nei c.d. “tempi di attraversamento” (cioè i tempi per i vari passaggi tra PP.AA., gli iter autorizzativi, e non solo) ed in un eccesso di “attenzioni” sul ruolo dei dirigenti e delle Stazioni Appaltanti rispetto al principio del “risultato” che dovrebbe caratterizzare l’attività amministrativa.

Le stesse originarie norme proposte dal Consiglio di Stato sul ruolo dell’ANAC, sulle casistiche per ricorrere all’appalto integrato, nonché le soglie per gli affidamenti diretti, sono chiare e indicano un equilibrio tra i vari principi.

Il Parlamento nella passata Legislatura e il Consiglio di Stato, come il buon Dottor Jekyll insomma si muovono con merito e perizia, al netto di qualche punto, migliorabile come sempre e al netto dei “punti politici” che nessun organismo tecnico può affrontare.

Quindi (e siamo alla “terza fase”) entra in campo il diabolico Mister Hyde.

Entra in campo da subito con una cifra politica evidente: quel “non disturbare chi produce”, sicuramente non riguarda i lavoratori che pure producono (sono “i produttori” per definizione avrebbe detto il compagno Bruno Trentin).

Infatti, per la prima volta in tanti anni, le bozze dei decreti legislativi attuativi del nuovo Codice degli Appalti non sono oggetto di un confronto tra il Governo e le organizzazioni sindacali. A differenza del passato e degli ultimi due Codici (e anche dei decreti di modifica di alcune loro parti).  A meno che non si consideri confronto una consultazione on line dove si possono scegliere solo 3 argomenti e con battute limitate (il Codice degli appalti non è un “twitter”).

Il Governo non convoca mai una riunione con CGIL, CISL e UIL e con le categorie più interessate, anche per ricevere quei contributi di merito, quelle proposte che, chi vive tutti i giorni le problematiche degli appalti, potrebbe fornire.

Tanto da giungere, unitariamente, come FENEAL UIL, FILCA CISL e FILLEA CGIL a pubblicare sui principali quotidiani italiani, una lettera aperta al Presidente del Consiglio dove si chiede formalmente il tavolo, anticipando – a titoli – i temi a noi più cari e i rischi che vediamo profilarsi.

E si giunge così ad oggi: il Consiglio dei Ministri vara un decreto legislativo che, pur prevedendo anche norme importanti e significative, ha in sé limiti così evidenti da rendere anche il buono e il positivo più una “somma di principi” che non una realtà concreta. Insomma il meccanismo potrebbe funzionare, ma quattro manciate di sabbia, gettate all’interno dei meccanismi giusti rischiano di far saltare un equilibrio delicato ed importante (e con esso la concreta applicazione e verifica delle norme a tutela di lavoro, sicurezza, trasparenza e legalità).

Questo è il punto.

Nel testo vi è qualche mancanza: alcuni allegati non sono coerenti con le norme dell’articolato (si veda per tutti l’allegato sulle procedure e sul Piano di Fattibilità Tecnica Economica – PFTE) e  manca l’applicazione di uno specifico rimando della delega stessa (la legge delega prevede un aggiornamento automatico quando crescono i costi delle materie prime, ma anche del costo del lavoro quando vi sono gli aumenti contrattuali; legge delega comma 2 lettera g, non ripresa nell’attuale art. 60 del decreto).

Ma magari, mentre leggerete questo articolo, questi e altre dimenticanze o refusi sono stati superati.

I punti più delicati e che ci spingono a richiedere significative modifiche sono altri e rispondono a quella logica “della sabbia negli ingranaggi” che non solo noi, ma anche parte delle imprese più serie ed avvedute (che per fortuna ci sono) hanno già evidenziato.

Il primo grande problema è quello di aver di fatto liberalizzato i livelli di subappalto. Il cosiddetto “subappalto a cascata”, rischiando di portare le nefandezze che spesso incontriamo nell’edilizia privata nel settore degli appalti pubblici!

Sparisce infatti quanto previsto finora dal comma 19 dell’attuale art. 105 del Dlgs. 50/2016 che vieta di subappaltare quanto già subappaltato, ovvero sia vieta un secondo (o superiore) livello di subappalto.

Se dal 1° luglio 2023 dovesse entrare in vigore la nuova norma proposta assisteremo ad una frammentazione dei cicli produttivi teoricamente senza limiti, al massimo incentivo possibile al nanismo aziendale - se va bene - alla nascita di imprese senza dipendenti (o solo con qualche tecnico) come probabile, cioè cottimisti e caporali legalizzati.

Sarà concreto il rischio che aziende che prenderanno lavori pubblici, li daranno poi in subappalto e che poi i nuovi subappaltatori subappalteranno i lavori, a loro volta, ad altre aziende e così teoricamente all’infinito.

Aumenteranno le zone grigie, avremmo decine di imprese formalmente scollegate che lavorano nello stesso cantiere, con tecnici ed operai che neanche si conoscono e, come dimostrano tutti gli studi, man mano che si allunga la catena del subappalto, aumentano gli infortuni, aumenta lo sfruttamento (fino a lavoratori che lavorano anche 12-14 ore al giorno), aumentano i rischi di infiltrazione criminale.

E poiché le imprese non sono “dame di carità”, ogni subappalto – a meno che non si tratti del caso di appalti super specialistici, ma se questo ero il tema doveva essere affrontato in questo modo - dovrà garantire un risparmio all’impresa che sta sopra (o se volete un profitto). E allora rischiano di pagarne il conto i lavoratori, in termini di salario e sicurezza di fatto (magari sempre applicando il CCNL edile ma con turni massacranti, risparmiando sulla formazione, ecc.) o la stessa qualità dei materiali e dell’opera.

In questo contesto sarà molto più difficile per tutti, sindacati, imprese serie, Pubbliche Amministrazioni verificare e far rispettare le stesse norme sulla sicurezza, sul rispetto dei contratti collettivi, sulla parità di trattamento, sul Durc di Congruità, sui piani operativi sulla sicurezza, ecc. che anche il codice teoricamente tutela.

La stessa Ance ha sollevato queste preoccupazioni. Cioè la preoccupazione, per noi fondata, che il cantiere diventi una giungla.

Questo punto tutto politico non poteva essere e non può essere scaricato su nessuno (a partire dal Consiglio di Stato che non è un organo politico) se non sul legislatore: è tutto in capo al Governo che può tranquillamente, con il decreto stesso e/o con un intervento normativo, mantenere questa fondamentale e concreta tutela.

Al riguardo non ci si venga a dire che lo impone l’Europa: perché la Commissione  – che molto si accanì sull’obbligo della terna dei subappaltatori e sulla percentuale (il 30% e poi 40%), non in quanto tale ma perché “predeterminata” – non ha mai formalmente aperto una procedura di infrazione sul comma 19 dell’art. 50. Questo perché tra i considerata sono fatti salvi principi di “clausole nazionali” volte a tutelare anche la salute e sicurezza dei lavoratori e contrastare le criminalità organizzate e perché – è utile tornare su questo punto – la dimensione media di impresa in Europa, le stesse garanzie poste da PP.AA. più efficienti ed efficaci, la presenza storicamente e giudiziariamente accertata di mafie attraverso i subappalti e le forniture, sono assai diverse da quelle italiane.

E non ci si venga neanche a dire che le Stazioni Appaltanti possono (potevano anche prima, con le vecchie norme) indicare quali attività non sono subappaltabili, dandone specifica motivazione scritta. Già adesso tutti puntiamo il dito sul rischio di “contenziosi”, di “blocchi della firma”, di responsabilità del dirigente e – a fronte di un Codice Appalti che si auspica solo una maggiore qualificazione delle PP.AA., una maggiore formazione e presenza di nuovi tecnici, una massima digitalizzazione di tutti i passaggi – chi sarà il dirigente che si “esporrà” anche a questo ulteriore rischio di ricorso?

Qualcuno pensa veramente che le singole Prefetture potranno, appalto per appalto, in base ai rapporti del raggruppamento interforze escludere questa o quella lavorazione, questo o quel settore?

Non nascondiamoci dietro la teoria, guardiamo alla pratica, a ciò che concretamente avviene nei cantieri. Lo sanno le imprese, lo sanno i lavoratori e, temo, lo sappiano anche le organizzazioni criminali.

A questo rischio, connesso al subappalto a cascata, non a caso fanno da “pendant” altre scelte: la prima è il depotenziamento della funzione dell’Anac. Non parliamo della questione “commissari di gara” o qualche eccessivo rinvio ad atti legislativi secondari. Parliamo di alcuni punti in cui, la terzietà di un’Autorità, specificatamente volta a svolgere funzione anti corruttiva, viene indebolita (non per forza ex post, ma anche ex ante, secondo il lavoro positivo che da anni sta facendo il Dottor Busia).

La seconda: aver esteso l’appalto integrato (cioè progettazione ed esecuzione sotto lo stesso soggetto, sicuramente sotto la stessa catena reale di comando ed interesse) a tutti gli appalti (nella versione del Consiglio di Stato era possibile solo per gli appalti complessi), senza limiti economici (nella bozza del CdS c’erano) e anche alle manutenzioni straordinarie (che il CdS escludeva).

L’Appalto integrato può avere un senso per alcune grandi opere complesse (e il forse è d’obbligo, visto i disastri che combinarono le c.d. “Leggi Obiettivo” di Berlusconi che fecero aumentare insieme i costi per opera e il numero di opere incompiute), ma generalizzarlo vuol dire assumere dei rischi (e caricare di più lavoro, altro che semplificare) per le stazioni appaltanti.

Stiamo parlando di varianti, ma anche di una progettazione che può partire dalle condizioni dell’esecutore (e non viceversa, come dovrebbe essere, che è l’esecutore che parte da quello che è indicato in progetto e un buon progetto riduce di molto tempi e rischi di esecuzione, come sanno tutti i RUP).

Ed infine, ma non per importanza, anzi: aver portato le soglie economiche per cui non sono più obbligatorie gare e bandi pubblici a cifre spropositate e nelle possibilità anche dei comuni più piccoli (la soglia di 500 mila euro per l’assegnazione diretta, grida vendetta; l’80% degli appalti è sotto le soglie sia di 1 milione che di 500 mila euro).

Qui con buona pace dell’Unione Europea cui direttive è vero che riguardano importi superiori ai 5 milioni di euro, ma che invita gli Stati Membri al massimo di trasparenza e al massimo ricorso a gare e bandi pubblici.

Il rischio – come mi ha detto scherzosamente un magistrato in pensione, evidenziandomi le identiche critiche avanzate dall’associazione LIBERA – è che forse si riusciranno a spendere i soldi del PNRR (e non solo), ma poi quanto andrà in lavori, in opere che servono, in occupazione sicura e stipendi regolari, sarà tutto da vedere, così come i casi di eventuali corruzioni o infiltrazioni criminali.

Ecco le quattro manciate di sabbia. Esse non appaiono casuali, ma un combinato disposto per cui: assegnazione diretta di appalti senza gara, appalto integrato, Anac indebolita e subappalti liberi per “accontentare” il più possibile…

Per queste ragioni come FILLEA CGIL faremo di tutto – confronti, audizioni, campagne, mobilitazione – affinché tali rischi si evitino e si scommetta ed investa invece lì dove serve veramente: meno stazioni appaltanti ma più qualificate e con più tecnici, digitalizzazione ed interconnessione di tutti i dati, incentivi alla crescita dimensionale delle imprese e alla loro qualificazione in termini tecnologici e di personale, premiando e creando “lavoro buono”.

Perché noi siamo i primi a voler fare veloce, però vogliamo fare anche bene. Bene per i lavoratori, bene per le imprese serie, bene per il Paese.

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