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Una nuova sfida, per una nuova forma di città: il contributo di Mario Ridulfo, Segretario generale Cgil Palermo.

Ragionare delle città, significa, provare ad immaginare il mondo che verrà tra trent’anni, tenendo conto del contesto attuale, della storia della città e della sua stratificazione sociale. Dal mio punto di vista, cioè dal punto di vista di una persona che vive in una città del sud Italia, in Sicilia, il contesto è tutto, ovverosia tutto il contesto, quello cioè inteso come il luogo di vita e di passione delle persone e non come un mero agglomerato di case e di cose, anche “algoritmiche” del futuro. Per questo voglio partire dall’esempio che più conosco, così come mi appare adesso: Palermo, le tre città.

7giugno RidulfoLa città- Centro storico, frutto di una stratificazione lunga tremila anni, è la parte della città dove più consistenti sono stati gli investimenti pubblici/privati degli ultimi decenni.

Il risanamento del centro storico, uno dei più estesi d’Europa, dove ha sede uno dei 58 siti italiani, patrimonio dell’Unesco (il cd. Percorso arabo-normanno) ed anche sede del primo dei 15 siti del Patrimonio immateriale (il cd. Teatro dell’opera dei pupi siciliani). Quando si dice Palermo, si pensa ai quattro mandamenti, quelli che caratterizzano la città storica. Ancora oggi, può capitare di sentire dire ad un cittadino che si sposta verso il centro, dal resto della città, “scendo a Palermo”.

La città costiera, invece è la Panormos (dal greco pàn-òrmos “tutto-porto)”, che negli anni della speculazione edilizia, si diceva, avesse “girato le spalle al mare”.

Il rapporto tra i cittadini e il mare è una lenta opera di riappropriazione culturale, in quanto città marinara e in quanto luogo di migrazione. Tutti i migranti, da qualunque parte provengano, una volta insediati sono palermitani. Questo processo di rigenerazione umana e ambientale caratterizza adesso il rapporto stesso tra la città, il mare e la sua area portuale e commerciale, con il ridisegno del suo “water front”, dovrebbe dare finalmente una nuova fisionomia alla “città aperta”, quella verso il blu e non chiusa dai grigi cancelli e dalle strade, come è stato dal dopoguerra in poi.

La città Cemento, la città consolidata è quella cresciuta all’ombra del cd. Sacco di Palermo, successivo ai bombardamenti che nel 1943 colpirono la città, soprattutto il centro storico.

L’effetto fu che ben 40 mila cittadini rimasero senza casa. Nei 15 anni successivi oltre 35.000 persone si trasferirono in città da tutta l’isola. A Palermo c’era il lavoro ma mancavano le case. Tutto questo comportò una grande richiesta di alloggi che il Comune non riusciva a soddisfare. Al Piano regolatore della città quello del 1956 e quello del 1959, furono apportati centinaia di emendamenti e varianti, in accoglimento di istanze di privati cittadini (molti dei quali in realtà erano prestanome di politici e mafiosi). Negli anni in cui l’assessore ai lavori pubblici era Vito Ciancimino, delle 4.000 licenze edilizie rilasciate, 1600 figurarono intestate a tre prestanome, che non avevano nulla a che fare con l’edilizia ma figuravano in un albo di persone autorizzate a costruire. Tremila di queste concessioni furono firmate nell’arco di una sola notte. Il motto dei “giovani turchi”, la corrente democristiana di cui facevano parte, era “Palermo è bella, facciamola più bella “. Purtroppo, la città del Cemento ha condizionato non solo la vita ma anche lo sviluppo delle prime due e qualsiasi scelta futura dovrà tenerne conto.

Costruire la visione, governare i processi, determinare una nuova qualità dell’abitare e del vivere.

Dal punto di vista geologico Palermo è definita come zona a rischio sismicità medio- alta, dal punto di vista “sociologico” è ad alto rischio.

Certo ci vorrà tempo per recuperare “le fratture” sociali e le “fratture” concettuali che a Palermo non hanno prodotto una riflessione, né anticipato le scelte politiche, perché spesso l’unica scelta è stata quella del lasciar-fare.

La riflessione attorno alla cd. Città dei 15 minuti, rilanciata a Parigi dalla sindaca e fatta propria in Italia da alcune città, Milano in testa, che affonda in parte la sua elaborazione nello studio di Chicago (il concetto di “neighborhood unit”, unità di vicinato), a Palermo semplicemente non esiste, almeno in questi tempi recenti, quelli cioè, della campagna elettorale per il rinnovo del consiglio comunale e per l’elezione del sindaco, che sono proprio i tempi in cui si dovrebbero proporre e contrappore le opposte proposte e le opposte visioni.

A Palermo è mancata la pianificazione strategica (territoriale, ambientale, ovvero la strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici della mobilità e della viabilità, come il coordinamento dello sviluppo economico e sociale) che in altre realtà hanno svolto soggetti sovra comunali e che qui avrebbe dovuto/potuto essere svolta (oltre che dal comune, e dalla Città Metropolitana), dalla Regione Siciliana.

La debole economia, seppure con tante eccellenze, compromette la “visione” perché si scontra con la “materia”, quella cioè che obbliga le persone a spostarsi oltre il quarto d’ora per cercare e trovare lavoro.

C’è una differenza rispetto a tante altre città, in cui ci si interroga su come accorciare la filiera produttiva all’interno delle quali immaginare e costruire il tempo e lo spazio dei 15 minuti. A Palermo, come anche in gran parte delle città del sud, il tema è invece come creare le filiere produttive, non è questione di poco conto.

Se non si avrà il coraggio di ri-localizzare produzioni e filiere, ri-programmare attività pubbliche e politiche innovative in termini di ambiente e di mobilità, attrezzature e sistemi produttivi, la “ville du quart d’heure” resterà uno slogan che potrà andare bene, solo e solamente in alcuni casi dentro un perimetro ristretto, quello della Ztl o della città del Centro, la seconda “C” di cui parlavo all’inizio, che però sarà tutt’al più una “città camminabile”, per i residenti e per i turisti e d’altronde il centro storico di Palermo, quello dentro le mura è uno dei più grandi d’Europa.

Questa sfida, quella del ri-dare, del ri-attuare per ri-partire, che presuppone la capacità di invertire lo sguardo, come dicono Ricci e Sateriale, ha bisogno, sia di una nuova governance, sia della partecipazione.

Il dato reale, di una grande città del sud, che contrasta la “visione” è la progressiva diminuzione della popolazione residente. Negli ultimi vent’anni la popolazione è diminuita di quasi 60 mila abitanti, 30 mila negli ultimi 5 anni. Questo dato al netto di quanti si sono spostati nei comuni dell’area metropolitana determina due considerazioni:

  1. l’enorme patrimonio abitativo sfitto, paradosso, difronte alla emergenza abitativa;
  2. dall’altro, il dato della emigrazione di buona parte della popolazione in età di lavoro e di studio che difficilmente, una volta fuori tornerà, questo fenomeno è più accentuato nei comuni delle aree interne e montane (ma purtroppo questo dato è diffuso in buona parte del paese).

D’altronde per decenni la dottrina liberista sposata da quasi tutta la classe politica italiana, ha prodotto l’esortazione quasi compassionevole ai giovani di non cercare il lavoro sotto casa, ma di spostarsi lì dove il lavoro c’è, altro che 15 minuti, per molti sono stati 15 ore, per altri 15 anni, per altri un tempo indeterminato.

La questione che complica, dal punto di vista di un cittadino, è la concretezza della visione.

Quello che voglio dire è che non ci può essere uno scarto così ampio tra la visione e i fatti concreti, atteso che entrambi, sono utili.

Non è che le due cose non sono mai esistite, anzi in alcuni casi la visione ha dato vita a realtà materiali, cioè esistono progetti di una visione, moderna per l’epoca, che si sono realizzati anche a Palermo, ad esempio l’esistente “Quartiere Matteotti”, un quartiere giardino realizzato negli anni 30 del 900 per iniziativa dello IACP (dunque destinato ad edilizia popolare) che acquistò i terreni dalla famiglia Monroy (una ricca famiglia di commerciati inglese, come tanti altre presenti a Palermo, come i Whitaker, etc..) e realizzò, una città giardino di 54 mila metri quadri , ispirandosi alla città giardino, teorizzata da Ebenez Howard, realizzando così una oasi di pace e di verde a pochi minuti dal centro città che nel frattempo si era spostato da piazza Villena, i quattro canti della città, il centro geografico della vecchia Palermo, verso piazza Politeama, il centro commerciale e finanziario della nuova Palermo.

Questa idea della città-campagna, (l’idea di decongestionare la città storica, di programmare e gestire l‘espansione attraverso il decentramento della popolazione in città satelliti immerse nel verde della campagna (in questo caso della Conca d’oro), fondata su un equilibrio armonico attraverso una struttura radiocentrica attorno alla quale inserire teatri, biblioteche, ospedali, etc... quindi i servizi pubblici e i luoghi di lavoro a Palermo ad inizio secolo erano possibili in quanto sia dentro che attorno alla città esisteva uno spazio fisico “libero” che si estendeva dal mare, dai cantieri navali, dal porto, fino alle colline fino a Monreale), dopo il processo di cementificazione senza limiti e programmazione, successivo naturalmente al dopo guerra, è oggi quasi irrimediabile.

Dunque, occorre costruire una visione che tenga conto del contesto, della cd. Città consolidata, ad esempio fra il 1939 e il 2006, si è passati da una percentuale di occupazione del suolo del 11% ad una percentuale del 57%, con un forte incremento negli anni dal 1973 al 1989, quelli di attuazione del PRG del 1962.

Tra l’altro questa fase è stata segnata dal perverso rapporto tra mafia-politica- impresa, per dirla alla Sateriale, mentre altrove la distanza tra governanti e governati è cresciuta, a Palermo è cresciuta in maniera malata, si è trasformata in un rapporto di coabitazione e di subalternità.

Come scrive Umberto Santino, sociologo palermitano, questo rapporto ha determinato da parte della Mafia una “signoria territoriale”, una forma totalitaria di controllo all’interno e all’esterno della città, dentro e con lo Stato, in quanto la mafia, questa associazione criminale, presenta i caratteri fondamentali dei gruppi politici (un ordinamento, una dimensione territoriale, la coercizione fisica un apparato amministrativo, et...).

Dunque, il tema per noi è triplice:

  • Ri-pensare e ri-organizzare l’esistente
  • Ri-pensare e ri-organizzare la visione
  • Ri-pensare e ri-organizzare l’azione.

Naturalmente per ritornare alla dimensione del nostro argomento, occorre riorganizzare gli spazi urbani e contestualmente, creare gli spazi dei bisogni, cioè lavoro, servizi, impianti, rigenerando ad esempio a Palermo le aree dismesse della Chimica Arenella, Fiera del mediterraneo, ma anche il fiume “Oreto” e la costa sud (Sperone, Brancaccio, Acqua dei corsari, Bandita).

La visione necessaria deve coniugare l’idea di città “bio-ecologica” (attenta al consumo di suolo zero, alla rigenerazione degli spazi urbani già esistenti), ma attenta anche alla giustizia sociale, cioè ad esempio: il necessario ri-utilizzo del patrimonio esistente, compreso quello confiscato alle mafie.

Per ri-pensare visione ed azione occorre pianificare le scelte strategiche, adesso, attraverso le scelte politiche ed economiche, sia quelle del governo centrale, sia quelle dei governi locali, cioè la evocata strategia nazionale e territoriale omogenea.

Impegnare su programmi e progetti (le tante risorse pubbliche già destinate e non spese, o quelle previste ad esempio dalla grande occasione del PNRR), ma anche da tutte le altre misure comunitarie, nazionali e regionali.

Una sorta di “bulimia normativa” che ha prodotto, a dire il vero, pochi risultati:

  •  le Zes (zone economiche speciali), le Zfu (zone franche urbane), le Zfm (zone franche montane) e poi le Snai (strategia nazionale delle aree interne), e ancora il “Patto per Palermo”, il “Patto per la Sicilia”, il “Patto per il Sud”, che si sommano alla programmazione comunitaria ordinaria: il fesr, l’fse, il fc, il feasr, feamp, etc... e inoltre bonus e incentivi, come quelli ad esempio, nuovamente destinati all’acquisto di mezzi di trasporto privati (ancorché più ecologici dei precedenti), mentre dall’altra parte si dice che occorre incentivare il trasporto pubblico di massa e/o condiviso.

Questa che è una contraddizione di sistema, è tutta politica, perché le misure sembrano rispondere a determinate esigenze, esattamente come cento anni fa, ovvero l’esigenza “esterna”, cioè quella di privilegiare l’industria automobilistica e il trasporto gommato, invece di privilegiare il trasporto pubblico di massa su ferro.

In Sicilia, giusto per dire del contesto, la tratta che collega Messina-Catania-Palermo, ovvero le tre aree metropolitane (tre milioni di abitanti sul totale di quasi cinque milioni della Sicilia), sono collegate da una rete ferroviaria ancora in larga parte a binario unico, mentre nella area della provincia di Palermo, nel tempo sono state dismesse, quelle che avrebbero potuto collegare il centro città con le aree più lontane e interne, permettendo così di avvicinare la città.

Tra l’altro degli incentivi all’auto, seppure elettrica o ibrida, nulla resta in termini di lavoro e di ricchezza prodotta sul territorio palermitano, anzi se consideriamo le vicende dell’ex fiat di termini imerese, sappiamo che è rimasta solo una grande area di fatto dismessa, un “ground zero” produttivo, tra mancata reindustrializzazione e riconversione.

Secondo la più recente statistica del Comune di Palermo (quella sui veicoli circolanti e immatricolati), il tasso di motorizzazione negli ultimi dieci anni è cresciuto

(61,63 auto per 100 abitanti, cioè 1,62 abitanti per autovettura. C’è da dire che il tasso di motorizzazione nelle grandi città italiane tra il 2010 e il 2020 manifesta un dato omogeneo, ma mentre a Torino scende dal 67 al 62, a Catania, ad esempio, sale dal 70 al 78, a Palermo da 60 a 61,63. Lo stesso vale per i motocicli aumentati nel periodo 2010 – 2020 del 3%.)

Dunque, il progetto di rigenerazione urbana così come quello dei cd. 15 minuti, devono essere coniugati con una nuova visione politica e di politica economica. Una nuova missione produttiva, “industriale” nel senso più ampio e moderno possibile, ambientalmente e socialmente sostenibile, sia per il territorio che per le persone, che hanno bisogno sia di protezione sociale che di occasione di sviluppo.

Ricordiamoci, che innanzitutto, al centro di tutto ci deve essere la persona.

La persona è il soggetto dello sviluppo sociale, economico e tecnologico della città. La città è, o sarà intelligente, sostenibile, solo se è/sarà partecipata e inclusiva, così come al tempo stesso, la città deve/dovrà essere capace di dare soluzioni efficienti ai bisogni di tutti.

La smart city, la città intelligente non è un fatto scontato né automatico, non vi è certezza assoluta che le nuove tecnologie andranno automaticamente a beneficio di tutti i cittadini. Sono i governi locali oltreché nazionale che possono e debbono avere un ruolo attivo per costruire soluzioni innovative.

Una missione per il territorio e per la città, che investe sul suo futuro e sul futuro dei suoi cittadini, che valorizza le produzioni locali e la filiera corta, anche dell’edilizia, cioè che valorizzi i materiali e pure gli scarti, nell’ambito di una economia circolare che però non è chiusa ma aperta alle innovazioni di sistema e di prodotto per migliorare la qualità, i ritmi di vita e di lavoro delle persone.

“Welfare territoriale” e “politiche attive del lavoro” sono indispensabili per il rilancio dell'economia locale, così come la collaborazione tra i soggetti pubblici e privati. Ma i soggetti pubblici debbono mantenere un ruolo principale, senza abdicare al privato o al terzo settore, responsabilità proprie.

Purtroppo, invece la tendenza in atto è quella della privatizzazione, anche quando le aziende sono a totale partecipazione pubblica, di funzioni e servizi, così tra capitalismo privato e capitalismo di Stato (adesso abbiamo pure il capitalismo verde...) il risultato è stato la svalorizzazione del lavoro, anche in termini di salario.

Invece è indispensabile che gli stessi cittadini-lavoratori possiedano una capacità salariale adeguata, per essere il “motore” del cambiamento, perché lavoratori precari, producono case povere (anche in termini di innovazione e di qualità dell’abitare) e città povere che non hanno la necessità primaria di pianificare, di progettare e costruire la visione che serve per il futuro delle nostre città, figurarsi per centrare gli 11 obiettivi di agenda 2030, cioè gli obiettivi e le priorità delle politiche pubbliche e quindi la direzione dei flussi finanziari dei prossimi 10 anni a cominciare da quelli del Pnrr, che rischiano di bypassare Palermo, come gran parte delle città del Sud Italia.

Occorre una visione unitaria, non si possono avere contemporaneamente misure e incentivi che contrastano tra di loro o si sovrappongono, col rischio o che non vengano spesi o che vengano spesi malamente. Per questo è necessario potere esercitare un controllo sociale, su: programmi, progetti, tempi e soldi, in tutta Italia ma soprattutto al sud e a Palermo.

Johann Wolfgang Goethe (“Viaggio in Italia” del 1787), «L’Italia, senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto».

Allora, se sono “le città i luoghi in cui si vince o si perde la sfida della sostenibilità”, io penso, che sarà nelle città come Palermo, che si vincerà o si perderà questa sfida.

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