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9  OTTOBRE 1963. L'ONDA DELLA MORTE

 

La montagna crolla, un mare di fango invade la valle. Quasi 2000 le vittime,travolte le case con i bambini, i loro genitori e i nonni. I montanari avevano capito cosa stava per succedere

di Oreste Pivetta

pubblicato sull'Unità del 7 ottobre 2013

Luigi Accamilesi era nato invece cinque mesi prima, giusto in tempo per morire spezzato da un`immane ondata, l`onda della morte, come titolò il Corriere della Sera. Seguo le bandierine, come veli di preghiere tibetane, verso la piccola chiesa, al limitare del baratro. Dieci, venti, trenta, cento, duecento, trecento. Infine sono quattrocento ottanta quelle che recano scritto un nome e un`età: neonati, bambini, ragazzi («sotto i 15 anni», precisa un manifesto) che morirono quella notte mezzo secolo fa, insieme con i loro genitori, con i padri e le madri, con i fratelli maggiori, con i nonni, con le loro case e i loro paesi: «9 ottobre 1963, alle ore 22,39» (incisione su una targa di bronzo), il giorno e l`ora in cui una frana si staccò dal monte Toc, precipitò nel lago, sospinse le acque verso la montagna e sopra la muraglia della diga, rovesciando il mare di fango con un salto di centinaia di metri in basso e poi giù ancora, nel letto largo del Piave, mentre la gente andava a dormire, qualcuno passeggiava e il bar di Longarone era affollato, la televisione era accesa e la partita tra Real Madrid e Glasgow Rangers era giunta alla fine.
Sotto il grigio del cielo, nel primo freddo, questo luogo stretto tra una cortina di montagne aspre sembra ripetere l`angoscia di quei giorni, prima e dopo la tragedia, un «genocidio» come lo definì sul nostro giornale Tina Merlin, che molto prima aveva raccontato che cosa si stava costruendo, il delitto che si andava organizzando, quanto si vedessero i movimenti di quella montagna, che a memoria dei vecchi si era sempre mossa, instabile e capricciosa, quanto si udisse il rombo dei terremoti sotterranei. Contadini e pastori avevano chiamato Toc quel monte davanti alle loro case e il nome aveva la sua ragione.
Ancora oggi basta guardare, risalendo dalla pianura friulana, dalle gole della Valcellina, dai prati di Cimolais, o dal versante opposto, dal Bellunese.Rocce rotte, prati che si inerpicano con pendenze impossibili, strapiombi. Ovunque le strisce chiare di frane passate e recenti. Quella del monte Toc ha lasciato pareti bianche di calcare, gigantesche lavagne appena inclinate, intatte come se cinquant`anni non fossero passati, un monumento come la collina immersa nel cratere che sarebbe dovuto diventare un lago, 270 milioni di metri cubi di detriti depositati a dividere il bacino, a cambiare tutto, vite e paesaggio. Sono cresciuti gli abeti ed è cresciuta l`erba. Un altro mondo e solo chi vede può capire.
Contadini e pastori di Erto e Casso avevano capito quello che sarebbe potuto accadere. Lo avevano capito anche quanti avevano voluto la diga più alta d`Europa. Avevano finto di non capire le autorità. Semplicemente non sapevano perché non potevano vedere quelli a valle, verso Belluno, quelli di Longarone e di altri paesi appena intorno. Longarone fu raso al suolo, un paese trasformato in un lago di fango: 1450 morti, più quelli di Erto e Casso (158), più quelli degli altri borghi (109), più duecento operai e tecnici con le loro famiglie, in tutto 1917 morti, cadaveri a chilometri di distanza trascinati dalla piena del Piave. La tragedia del Vajont può essere letta come una scena di lotta di classe: da una parte i poveri espropriati della loro terra, dall`altra i padroni della Sade, registi dell`impresa, e, dalla stessa parte, l`autorità pubblica al servizio della Sade. La Sade era la Società adriatica di elettricità, fondata da Giuseppe Volpi, nel Pnf da11922, governatore della Tripolitania (per «meriti» sul campo diventerà Conte di Misurata), ministro delle finanze, dal 1925 al 1928, milionario con porti alberghi e giornali (il Gazzettino di Venezia). All`epoca del disastro presidente della Sade era Vittorio Cini, da sempre socio in affari di Volpi, ferrarese, che al Pnf si era iscritto solo ne11926 e che ministro di Mussolini venne nominato solo ne11943. Senza rendersi conto di quanto
stava accadendo, si dimise da ministro e Mussolini lo accusò di disfattismo. Cini finì a Dachau, ma inuna clinica.
Dalla quale fuggì. Volpi, previdente, non mancò di approfittare di un paese in rovina, e, aggirandosi nelle stanze di ministeri vuoti, si fece assegnare l`autorizzazione a costruire quella diga, prima di cadere pure lui in disgrazia, passare per fiancheggiatore del Gran Consiglio, finire a Regina Coeli, poi in una clinica. Dalla quale fuggì. Volpi e Cini si ritrovarono in Svizzera e nel loro «esilio» strinsero amicizia con personaggi della futura Democrazia Cristiana. Ripagati.
La diga, autorizzata in tempo di guerra, divenne in pace sempre più alta. La Sade comandava, senza ostacoli nelle autorità del tempo. A protestare erano solo quei contadini, di poche parole, per lo più in dialetto, che avevano trovato accanto a sé solo quella giovane giornalista, che aveva subito persino un processo «per diffusione di notizie false, esagerate, tendenziose e capaci di turbare l`ordine pubblico"» ma che venne assolta perché nulla era stato riferito «di falso, di esagerato, di tendenzioso».
La Sade aveva fretta. L`energia elettrica era stata nazionalizzata e la diga doveva superare il collaudo in tempo per finire all`Enel, che avrebbe pagato.
La diga superò il collaudo. Fu solo la montagna a crollare. Gli altri italiani udirono per la prima volta il nome del Vajont la mattina del giorno dopo. Arrivò la televisione, in bianco e nero, e nelle case entrarono i volti dei pochi superstiti e le loro grida di disperazione e di rabbia: «Da do ani i saveva che veniva so la montagna». Da molto prima lo si sapeva. Vi erano già stati franamenti attorno. Nel 1960, ad esempio, una massa di ottocentomila metri cubi era scivolata in località Piano di Pozza, sollevando un`onda di due metri, che nell`impatto con la murata s`alzò di altri dieci metri. La Sade commissionò allora un modello in scala della diga, i tecnici simularono
la caduta di materiali e dovettero prendere atto della possibile uscita dell`acqua e del fango. La Sade truccò l`esperimento, per «non mostrare onde eccessive».
La Sade non si curò del lungo e profondo solco che da mesi, a occhio nudo, si scorgeva tagliare a metà il pendio del Toc. Semenza buttò via persino le ricerche del figlio geologo, Edoardo, che aveva individuato le dimensioni dello smottamento.
A vedere tutto, dalla prima mattina, furono gli operai: la terra che si muoveva, le fenditure che si aprivano, gli alberi che si giravano dalla parte delle radici. Tentarono di ridurre il livello delle acque. Alle otto di sera Alberico Biadene, direttore del servizio costruzioni idrauliche della Sade, chiamò uno dei suoi tecnici, pregandolo di «dormire con un occhio solo». Una telefonista di Longarone sentì, si intromise, chiese se vi fosse pericolo. Biadene la rassicurò. Mezz`ora dopo si spensero le luci, Longarone sprofondò nel buio e nel silenzio. Poi la nuvola di acqua, terra, sassi dall`alto del Vajont si scaricò sulle case e per le strade di Longarone trascinando i suoi morti. Altri erano stati travolti sulle montagne. Il presidente del consiglio Leone si recò in visita e manifestò il lutto della Nazione. Leone rimase in carica fino a novembre. Poi fu il turno di Moro con Nenni vicepresidente: s`inaugurava la stagione del centrosinistra. Leone sarebbe entrato nel collegio
di difesa della Sade.
Il 20 di febbraio 1968 il giudice istruttore di Belluno, Mario Fabbri, depositò la sentenza del procedimento penale contro dirigenti e tecnici dei monopoli elettrici e di vari uffici pubblici: Biadene, Pancini, Frosini, Sensidoni, Batini, Penta, Greco, Violin,
Tonini, Marin e Ghetti. Penta e Greco moriranno poco dopo, Panini si suicidò il 28 novembre, Batini si fece prendere dall`esaurimento nervoso.
L`iter processuale cominciò nel dicembre 1969, addirittura all`Aquila, per legittima suspicione. Si concluderà a Roma in Cassazione nel 1971. Biadene e Sensidoni, ingegnere capo del Servizio dighe del ministero, vennero riconosciuti colpevoli di inondazione aggravata dalla previsione dell`evento, compresa la frana e gli omicidi, e condannati rispettivamente a cinque anni e a tre e otto mesi, entrambi con tre anni di condono. Per gli altri pene minori o assoluzioni. La Montedison e l`Enel dovranno pagare i danni materiali.
Tina Merlin, nata a Trichiana (Belluno) il 19 agosto 1926, staffetta partigiana nella brigata «Settimo Alpini», morirà il 22 dicembre 1991, lasciandoci la sua memoria del Vajont: Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe.

 

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